In copertina: sfarzoso salone dell’Hotel Matignon.
Raffaele aveva ereditato il cognome dal nonno paterno doge di Genova e una cospicua fortuna dal padre Andrea.
Del prodigo mecenate ho già parlato in altre occasioni, accenno qui in breve invece al grande speculatore.
A soli 26 anni, fresco di nozze con Maria Brignole Sale, il futuro Duca di Galliera e Principe di Lucedio, nell’autunno del 1829 partì per Parigi dove fin dagli inizi seppe occupare, grazie ai suoi rapporti strettissimi con Luigi Filippo e la sua corte, un posto di rilievo nella buona società e nelle alte sfere del potere.
De Ferrari dimostrò subito enorme fiuto per gli affari, capacità relazionali fuori dal comune con l’alta finanza europea e abilità nel diversificare gli investimenti: dalle banche agli immobili, dall’edilizia alle miniere, dalle società alle ferrovie, alle attività portuali.
Fu socio fondatore di diverse banche fra le quali la Banca di Genova, quella ottomana di Istanbul e di numerosi istituti creditizi francesi, investì nelle miniere di zinco e rame, partecipò attivamente alla ristrutturazione urbanistica di Parigi finanziando la risistemazione degli degli Champs-Elysées, dell’avenue Montaigne, dei lungo senna e con gli sventramenti sulla Rive Gauche.
Ma il vero business e pallino del Duca De Ferrari furono le ferrovie. Fu infatti insieme agli Rothschild il principale promotore della messa in rotaia del nord della Francia. Ebbe in concessione, fra le altre, le linee Parigi Marsiglia e Lione Ginevra.
In Italia acquisì le ferrovie del lombardo veneto austriaco, quelle dell’Italia centrale (Emilia e Toscana), delle due riviere in Liguria e nel 1860, dopo l’unità del Paese, quelle borboniche del sud. In Spagna foraggiò inoltre la linea del norte del Paese.
A Parigi diverse proprietà testimoniano ancora oggi l’immensa potenza e ricchezza del casato:
1 Museo Galliera (odierno Museo della Moda)
2 Rue Saint Dominique (Residenza dei genitori)
3 Hotel de Matignon dimora dei duchi (attuale residenza del Primo Ministro francese)
4 Saint Philippe (fondazione per gli orfani)
5 Maison Blanche alloggio di campagna della duchessa (oggi proprietà privata e non parco pubblico come erroneamente indicato nella foto).
L’ho trovato intento ad ammirare perplesso il chiostro di S. Andrea e quando l’ho chiamato, si è rivolto a me con un’espressione smarrita, bofonchiando:
“E questo cos’è?, ai miei tempi non c’era! o meglio esisteva ma si trovava non lontano da qui, tra il colle di S. Andrea e Piazza San Domenico.
Mi ha guardato sconsolato dichiarandosi confuso molto più qui sulla terra ferma oggi che nell’oceano oltre 500 anni fa, che gli sembrava di aver abitato un tempo in questa zona e di aver riconosciuto l’antica Porta, senza però trovare la sua dimora.
– “Allora è vero che non lei non è genovese – lo provoco io – non vede la targa affissa su questa abitazione che certifica qui la sua permanenza?”
Mi fulmina col suo sguardo severo e autoritario e risponde con un tono che non ammette repliche:
– “Non scherzare amico, io sono nato a Genova nel 1451 da mio padre Domenico originario di Terrarossa una frazione di Moconesi in Val Fontanabuona e da mia madre Susanna proveniente da Fontanarossa, odierno quartiere di Quezzi in Val Bisagno (anche se altri insistono sull’omonimo toponimo della Val Trebbia).
Da piccolo ho abitato, così mi ha raccontato mio padre, in una casa in Vico dell’Olivella accanto all’omonima Porta di cui egli era custode.
Con la caduta in disgrazia per motivi politici del babbo ci siamo trasferiti – così raccontava mia madre, io avevo 4 anni e ricordo poco – in Ponticello, dove ci troviamo adesso, anche se a parte Porta Soprana fatico a riconoscere questi luoghi un tempo a me familiari.
Qui papà esercitava la professione del lanaiuolo e, per arrotondare, smerciava anche vini e formaggi.
Negli anni’70 i miei si sono spostati a Savona per prendere in gestione un’osteria ed io, fra un viaggio e l’altro, ho abitato con loro.
Visto che il mio primo ingaggio marittimo è avvenuto quando avevo 14 anni, già da tempo la mia casa infatti era diventata il mare”.
– “D’accordo Sig. Colombo ma a parte questi sbiaditi ricordi della sua infanzia come può – lo incalzo scettico – dimostrare i suoi natali?”
– “Giovanotto, innanzitutto, quando si rivolge ad un ammiraglio della Repubblica di Genova, del Portogallo, della Castiglia e di Spagna, si metta sull’attenti e rammenti che, dopo il re, è la più alta carica e autorità militare. Chiuda dunque quella bocca impertinente e mi stia ben a sentire:
durante la preparazione del quarto e ultimo viaggio per il Nuovo Mondo ho inviato il 2 aprile del 1502, per mezzo di Francesco Rivarolo, fidato e illustre banchiere mio concittadino in Sicilia, a Nicolò Oderigo, già ambasciatore genovese in Spagna, un plico contenente una raccolta di copie di lettere, una copia del Libro dei Privilegi, una lettera indirizzata al Banco di san Giorgio, una lettera per due altri miei amici genovesi e alcune istruzioni da trasmettere a Santiesteban a cui ho affidato il compito di conservare il tutto in un luogo sicuro e di metterne a conoscenza mio figlio Diego.
Inoltre, per tutelarmi da spiacevoli sorprese, ho affidato gli originali a Gasparre Gorricio perché li custodisse nel monastero di Las Cuevas a Siviglia.
Ne ho prodotto poi quattro copie: la prima l’ho lasciata ad egli stesso, la seconda ad Alonso Sanchez de Carvajal perché la portasse alle Indie, la terza ho chiesto appunto al Rivarolo di inviarla a Nicolò, al quale due anni più tardi ho inviato per maggior sicurezza anche la quarta.
Delle due copie genovesi – mi dicono – una è finita una in Francia requisita da Napoleone, l’altra invece dopo varie peripezie rimasta al Comune, è ora visibile nella mia città natale presso il Museo Galata”.
– “Parole, Eccellenza, soltanto parole. Ma di concreto, che documenti e prove ha accampato a sostegno della sua tesi che possano essere ancora oggi attendibili e consultabili a Genova? Verba volant scripta manent!”
– “Se lei fosse un marinaio del mio equipaggio avrei già punito la sua sfacciata arroganza che – per altro – è pari solo alla sua incommensurabile ignoranza, mettendola ai ferri a marcire in sentina, o al sole a bruciare sul ponte.
Perciò stia zitto, non mi interrompa con queste inopportune osservazioni e, soprattutto, non abusi della mia limitata pazienza!
Nel 1504 ho inviato a Siviglia per mezzo di Francesco Cetanio un’altra copia del Libro dei Privilegi con la raccomandazione di metterla al sicuro insieme alla precedente.
In quell’occasione consegnai a Francisco de Ribarol altre due lettere indirizzate al Banco di San Giorgio.
Benché il corpo cammini qui, il cuore sta lì di continuo.
Questo mio incipit, già la diceva lunga e non lasciavo spazi ad equivoci o fraintendimenti.
Nella missiva proseguivo informando i rettori del Banco che lasciavo a mio figlio Diego il compito di versare annualmente a Genova la decima parte della rendita che avrebbe ricavato dai suoi redditi e privilegi, in sconto delle gabella sul grano, sul vino e su altre provviste che gravavano sul popolo. Raccomandavo inoltre ai Protettori del Banco di vegliare su di lui”.
– “Ciononostante nei secoli successivi, Quinto, Savona, Cogoleto, Albisola, Terrarossa, Chiusanico, Cuccaro Monferrato Bettola e Piacenza, per non parlare di Calvi in Francia, hanno millantato i suoi natali.
Che dire poi delle sue presunte origini ebraiche sefarditiche, catalane, galiziane o andaluse in Spagna, portoghesi e cubane?”
– ” Tutte fandonie!
Ci mancava solo dicessero che fossi il figlio di un re in Polonia, o nipote di un Papa in Vaticano e poi le avrebbero trovate tutte pur di fregiarsi della mia fama”.
– “Non vorrei contraddirla – illustrissimo Viceré delle Indie – ma hanno già insinuato anche a questo: secondo i polacchi lei sarebbe Segismundo Henriques, figlio di Ladislao III re di Polonia; a Sanluri in Sardegna sostengono invece che lei sia Cristoval De Sena Piccolomini imparentato con il futuro Papa Pio II”.
A sentire questa serie di fantasiose sciocchezze l’esploratore del Nuovo Mondo, scuotendo il capo piuttosto contrariato, sentenziava:
– “Eppure già nel mio testamento datato 22 febbraio 1498 avevo messo per iscritto la raccomandazione rivolta a mio figlio Diego di adoperarsi sempre per il bene, l’onore e l’accrescimento della città di Genova, donde – soggiungi -trassi origine e nacqui”.
Prima di salutarci l’ho accompagnato in Darsena al Museo Galata nella sala a lui dedicata dove riposano le sue ceneri (ritornate da Santo Domingo) e sui moli a vedere il mare, il suo mare.
– “Per me, ammiraglio, oltre che un onore, è stato un piacere conversare con lei. Spero abbia perdonato la mia goliardica insolenza e non mi voglia annoverare fra i suoi detrattori?”
Avvolgendosi nel suo grande mantello di velluto nero il comandante mi ha congedato con gesto austero e, mantenendo comunque le distanze, come si addice ad un nobile del suo rango, ha proclamato orgoglioso con voce stentorea:
“Sun zeneize e no ghe mòllo”.
Chissà se mi avrà perdonato?
In copertina ritratto di Cristoforo Colombo eseguito nel 1520 da Ridolfo del Ghirlandaio esposto presso il Museo Galata di Genova.
Riccardo Reuven Pacifici (Firenze, 18 febbraio 1904 – Auschwitz, 11 dicembre 1943) è stato un rabbino italiano, vittima dell’Olocausto.
Pacifici era discendente da un’antica famiglia sefardita di origine spagnola e di tradizione rabbinica stabilitasi in Toscana, dapprima a Livorno e successivamente a Firenze, la cui presenza è documentata in quella regione già nel XVI secolo.
Terminato il Liceo Classico Riccardo si iscrisse all’Università di Firenze dove nel 1926 si laureò con lode in lettere classiche. Nel 1927 conseguì, presso il Collegio Rabbinico di Firenze, il titolo di Chachàm ha shalèm (Rabbino maggiore).
Prima ottenne l’incarico di vice rabbino di Venezia dal 1928 al 1930, poi quello di direttore del Collegio Rabbinico di Rodi dal 1930, infine di Gran Rabbino di Rodi fino al 1936.
In quell’anno gli fu affidata, in qualità di Rabbino Capo, la sinagoga di Genova. Compito che Pacifici assolse con zelo fino al giorno della sua deportazione.
Infatti, nonostante le ripetute minacce ricevute, non volle abbandonare la Comunità di Genova di cui si sentiva responsabile e capo spirituale.
Il carisma del rabbino aveva più volte messo in soggezione i vertici tedeschi cittadini. Fu così che venne catturato con l’inganno dai nazisti e deportato ad Auschwitz dove morì con la moglie Wanda Abenaim e molte altre persone appartenenti alla famiglia Pacifici.
Genova non ha voluto dimenticare né l’abnegazione con cui Pacifici ha prestato soccorso ai suoi correligionari, né il senso di appartenenza dimostrato, in un momento di grande pericolo, alla città che lo aveva accolto.
Nel 1966 gli è stata intitolata una piazza nel quartiere di Castelletto sulle alture della città: Largo Riccardo Pacifici.
In sua memoria inoltre il 29 gennaio 2012 a Genova è stata collocata uno Stolpersteine (pietra d’inciampo) sul marcia piede, davanti a Galleria Mazzini (lato Carlo Felice), luogo dove venne catturato dai nazisti il 3 novembre 1943.
L’alto prelato genovese si era distinto nella trattativa della resa nazista avvenuta nella sua residenza di Villa Migone nell’aprile del 1945.
Inoltre il cardinale si era attivato, aderando alll’associazione clandestina Delasem, per aiutare gli ebrei a sfuggire dal regime nazista. Per questa sua attività meritoria l’arcivescovo di Genova è stato nominato”Giusto fra le Nazioni” ed è uno dei soli quattro membri del clero che in Italia hanno ricevuto questo autorevole riconoscimento.
Boetto morì il 31 gennaio 1946 in seguito ad una crisi cardiaca ed ebbe giusta sepoltura con il massimo degli onori nel principale tempio cittadino.
L’epigrafe commemorativa alla base del sarcofago recita:
PETRUS CARD. BOETTO S.J. ARCHIEP. GENUEN. CIVITATIS DEFENSOR 1871-1946.
Con la sua scomparsa ebbe inizio l’epoca del suo successore Giuseppe Siri il cui mandato fu il più lungo, durato ben 41 anni fino al 1987, della storia della diocesi genovese.
A realizzare la scultura fu l’artista celebre, fra le sue tante opere, per il monumento subacqueo del Cristo degli Abissi collocato nei fondali davanti a San Fruttuoso.
Ma lo stupore non finisce qui perché alzando lo sguardo dietro al monumento si rimane estasiati dalla bellezza dell’Ultima Cena di Lazzaro Tavarone.
L’affresco dipinto nel 1626 in origine si trovava nel refettorio dell’ospedale Pammatone e venne trasferito in cattedrale quando il nosocomio, nel dopoguerra, venne demolito e smantellato.
Fra le innumerevoli opere d’arte di questo straordinario pittore basti ricordare il – a tutti familiare – prospetto di Palazzo San Giorgio decorato con le effige dell’omonimo santo.
A genova invece la festa della Befana, “Basara” in genovese, non solo non è l’ultima delle feste come vuole il noto proverbio che “l’Epifania tutte le feste porta via” ma è la prima di quelle importanti dell’anno appena iniziato e, proprio per questo, viene chiamata “Pasqueta” perché precedente anche la Pasqua. Secondo questa concezione, di conseguenza, il giorno dopo Pasqua non può più essere Pasquetta ma semplicemente il lunedì dell’Angelo.
Dal termine greco ἐπιφάνεια, epifáneia si arriva per storpiatura attraverso bifanìa e befanìa alla parola che identifica la festa dell’Epifania.
Negli antichi riti pagani intrisi di influenze mitraiche prima e celtiche dopo, tale ricorrenza era legata ai cicli stagionali dell’agricoltura, in relazione sia al raccolto dell’anno appena trascorso che, a scopo propiziatorio, per quello dell’anno futuro.
Gli antichi Romani ereditarono tali riti, associandoli quindi al calendario romano, e celebrando, appunto, l’interregno temporale tra la fine dell’annosolare, fondamentalmente il solstizio invernale e la ricorrenza del Sol Invictus.
La dodicesima notte dopo il solstizio invernale, si celebrava la morte e la rinascita attraverso Madre Natura.
I Romani credevano che in queste dodici notti (il cui numero avrebbe rappresentato i dodici mesi dell’innovativo calendario romano nel suo passaggio da prettamente lunare a lunisolare, probabilmente associati anche ad altri numeri e simboli mitologici) delle figure femminili volassero sui campi coltivati, per propiziare la fertilità dei futuri raccolti, da cui il mito della vecchina “volante”.
Secondo alcuni, tale figura femminile fu dapprima identificata in Diana, la dea lunare non solo legata alla cacciagione, ma anche alla vegetazione, mentre secondo altri fu associata a una divinità minore chiamata Sàtia (dea della sazietà), oppure Abùndia (dea dell’abbondanza). Un’altra ipotesi collegherebbe la Befana con un’antica festa romana, che si svolgeva sempre in inverno, in onore di Giano e Strenia (da cui deriva anche il termine “strenna”) e durante la quale ci si scambiavano regali.
Un’altra leggenda racconta invece di una solitaria vecchina che viveva isolata da tutti e passava il tempo a cucire calze. Un giorno alla sua porta bussarono i Re Magi che la invitarono a seguirla per portare i loro doni a Betlemme dove stava per nascere il Salvatore.
La Befana rifiutò di accodarsi ma, per non essere scortese, lasciò comunque appesa una calza vuota da portare al nascituro.
Quando anni dopo ebbe notizie del Redentore comprese che quel bambino che aveva snobbato era Gesù.
La Befana pentita si vergognò della propria meschineria. Non sapeva darsi pace per il disonore.
Finché una notte Gesù le apparve in sogno e la perdonò.
Da allora la vecchia carampana cavalca la sua scopa per portare ad ogni bambino una calza colma di piccoli doni e leccornie.
La Befana è una bonaria vecchina che nulla ha a che fare, nonostante la scopa e alcuni tratti in comune, con le streghe. Non veste di nero, né calza stivali o indossa cappelli a punta. Si copre infatti con un fazzolettone di stoffa pesante (la pezzóla) o uno sciarpone di lana annodato in modo vistoso sotto il mento e vola, al contrario delle fattucchiere, con il manico alle spalle e le ramaglie davanti.
Da queste tradizioni pagane si ha poi il passaggio, con il Cristianesimo, alla simbologia della prima manifestazione (epifánein in greco significa apparire, mostrarsi) di Gesù in pubblico, presentato dunque ai Re Magi.
La Befana passando dal camino rappresenta l’unione fra cielo e terra e con il suo passaggio segna l’apertura del nuovo anno. Per questo è rappresentata vecchia e brutta e i suoi fantocci a immagine dell’anno appena trascorso venivano bruciati.
Da 1 al 6 gennaio la sua comparsa simboleggiava rigenerazione e prosperità. Non a caso nella notte fra il 5 e il 6 il ciclo del rinnovamento si compie e il mondo cambia, si trasforma: gli alberi si caricano di frutti, le acque sono oro liquido, e le fanciulle pongono foglie d’ulivo.
A Genova invece la festa della Befana, “Basara” in genovese, non solo non è l’ultima delle feste come vuole il noto proverbio che “l’Epifania tutte le feste porta via” ma è la prima di quelle importanti dell’anno appena iniziato e, proprio per questo, viene chiamata “Pasqueta” perché precedente anche la Pasqua. Secondo questa concezione, di conseguenza, il giorno dopo Pasqua non può più essere Pasquetta ma semplicemente il lunedì dell’Angelo.
La Basara, accompagnata dal vecchio marito la cui presenza si è poi pian piano smarrita nei tempi, in origine portava i suoi regali e il suo carbone e aglio in gerle di vimini o in sacchi di iuta sfatti e slabbrati che assumevano la forma di calzettoni enormi.
Il carbone, o la cenere, infatti erano un simbolo rituale dei falò che inizialmente venivano inseriti nelle calze o nelle scarpe insieme ai dolci, in ricordo, appunto, del rinnovamento stagionale, ma anche dei propiziatori fantocci bruciati.
Da qui l’usanza della calza in cui i bimbi trovavano frutta fresca o secca e qualche piccolo dolciume se erano stati bravi, il temuto carbone se erano stati discoli, adottata anche dalla chiesa cattolica.
In ogni caso niente regali perché quelli venivano dispensati a S. Lucia (13 dicembre) e/o a Natale.
E a tavola come si celebrava?
come recita l’antico adagio “Epifàgna, gianca lasagna” a Genova erano d’obbligo le lasagne bianche intese come impasto di sola acqua e farina senza uovo, bollite (ma non cotte al forno) e condite con il pesto.
Insomma la classica pasta genovese molto simile ai tradizionali mandilli de saea.
Si proseguiva poi con il pesce bollito e l’immancabile Cappon Magro in una versione però molto più essenziale di quella odierna, priva di gelatina e con la salsa verde, per non occultare il sapore del pesce, servita a parte.
Si concludeva infine come per tutte le feste con un brindisi e una fetta di Pandolce.
In copertina befane al Porto Antico nel 2019. Foto di Giulio Gazzale
Nell’oratorio attiguo alla chiesa della Santissima Concezione in Piazza dei Cappuccini, meglio nota come del Padre Santo, si trova uno dei presepi più amati dai genovesi.
Tale ambientazione venne allestita per la prima volta nel 1842: i personaggi sono sparpagliati in un classico borgo nostrano impreziosito sullo sfondo da una scenografia di monti con uno scorcio di mare all’orizzonte.
La tradizione che vuole le principali statuine riconducibili al Maragliano, o quanto meno alla sua bottega, non trova in realtà riscontro oggettivo nei documenti dei Cappuccini.
Anzi le figure di dimensioni e gli abiti di fogge varie, per quanto pregevoli, lasciano ipotizzare fatture e genesi diverse.
Da recenti studi è apparsa infatti plausibile la paternità di un altro meno noto esponente settecentesco della scultura genovese di nome Giulio Casanova.
A conferma di tale ipotesi è la presenza ricorrente di tale artista, associata ad altre opere, negli archivi del complesso religioso stesso.
Oltre a quelle del Casanova degni di attenzione sono in particolare alcuni manichini lignei di scuola napoletana e alcune sculture di animali provenienti dal presepe Brignole -Sale, custodito quasi integralmente nel convento delle Brigoline in Viale Centurione Bracelli, a Marassi.
Fra queste risalta in primo piano la figura di un asino caduto e disobbediente e sordo agli ordini del suo padrone.
… e i Mille di Garibaldi suscitavano emozioni ancora troppo vicine per meritarsi la gloria del ricordo…
No, non siamo in qualche sperduta landa del Far West, ma alla stazione ferroviaria di Quarto inaugurata nel 1868 lungo la tratta Genova Chiavari.
I personaggi immortalati nello scatto a cavallo tra i due secoli non sono coloni, cow boys o sceriffi, ma operai, donne e capostazione, nostri concittadini.
Solo nel 1913 infatti divenne Quarto dei Mille in onore dell’impresa dei garibaldini partiti – appunto – dal celebre scoglio vicino allo scalo ferroviario.
La galleria degli Specchi di Palazzo Reale fu fatta costruire dai Durazzo e decorata a fresco 1730 da Domenico Parodi con statue romane e affreschi metaforici sulle virtù e sui vizi.
L’ambientazione comprende e fonde con eleganza e raffinatezza pittura, scultura, architettura accompagnando il meravigliato ospite in un viaggio nell’arte a tutto tondo.
Le scelte artistiche dei committenti furono certamente influenzate dai precetti del vicino centro gesuitico dei Santi Gerolamo e Saverio di cui i nobili del casato erano abituali frequentatori.
Tutte le scene realizzate hanno infatti un comune trait d’union di monito moraleggiante. Le antiche divinità, Venere, Bacco, e Apollo con Marsia, riproducono dunque i vizi che portarono alla rovina i grandi imperi dell’antichità, rappresentati dai quattro imperatori raffigurati nei medaglioni ovali: Sardanapalo, Dario, Tolomeo e Romolo Augustolo.
Le figure femminili simboleggiano invece le allegorie delle virtù teologali e cardinali riferimento dei Durazzo, il cui stemma campeggia al centro del percorso.
La galleria degli Specchi nella sua meravigliosa armonia costituisce veramente un gioiello di rara eleganza e sfarzo in cui spiccano quattro statue (Giacinto, Clizia, Amore o Narciso, Venere) di Filippo Parodi (padre di Domenico) e un superbo gruppo marmoreo (Ratto di Proserpina) di Francesco Schiaffino.
A Instanbul il prestigio dei genovesi è testimoniato non solo dal quartiere Galata con relativa torre simbolo della città ma anche dalla contrada che ancora oggi, portandone il nome, celebra il nostro eroe: Cağaloğlu (poiché oglu significa figlio, il figlio di Cigala).
Sette tracce che, fondendo in maniera irripetibile e magistrale suoni e parole, celebrano Genova, il mare e le culture del Mediterraneo.
Fra queste canzoni emerge da un lontano passato la storia del nostro nobile concittadino Scipione Cicala che, imprigionato dai turchi, ne divenne condottiero e corsaro fino ad ottenere il massimo degli onori possibili per un infedele, ovvero il titolo di Pascià.
“E questa a l’è a ma stöia, e t’ä veuggiu cuntâ”…
“Sinan Capudan Pascià” racconta appunto le vicende del genovese Cicala (“sinan”, dato che in turco ottomano antico Genova si dice “Sina”, significa genovese) che fu catturato nel 1560 a bordo della nave del padre Vincenzo dopo la disfatta della battaglia di Gerba.
Nei pressi dell’isola tunisina ebbe luogo infatti lo scontro che permise ai Turchi di consolidare in maniera inequivocabile la propria supremazia nel Mediterraneo dopo i decenni in cui Andrea D’Oria vi aveva imposto la propria legge.
In quell’occasione il corsaro Dragut aveva infatti sconfitto la flotta cristiana da pochi anni ereditata dal nipote Gian Andrea con il titolo di Capitan general de las galeras de Génova.
Secondo alcune interpretazioni a quasi 94 anni Andrea si spense nel suo palazzo, corroso dai dolori e soprattutto dalla delusione per la notizia della perdita delle sue invitte galee.
Gian Andrea dovette aspettare il 1584 per vedersi riconoscere, al pari dell’illustre avo in precedenza, l’incarico di massimo prestigio della marina spagnola, ovvero quello di Capitan general de la mar.
Non tutti gli storici però concordano su tale antefatto: per alcuni invece Sinan sarebbe stato catturato da Dragut non nei pressi dell’isola tunisina, ma al largo di Marettimo, alle Egadi, mentre con il padre Vincenzo veleggiava verso la Spagna. Era il 18 marzo del 1561 e Scipione aveva appena 17 anni.
Quale che sia la versione corretta di certo il giovane Scipione e il padre Vincenzo vennero catturati entrambi e tradotti prigionieri ad Instanbul.
Vincenzo pagò il proprio riscatto e venne liberato ma, per carenza di fondi, non quello del figlio. Fu così che Scipione per non finire ridotto in schiavitù, legato a qualche banco di voga a remare, abiurò la propria fede e si arruolò nel corpo scelto degli Giannizzeri.
Per via di questo suo opportunistico cambio di campo religioso, venne disprezzato e battezzato dai Cristiani “rénegôu”:
“E digghe a chi me ciamma rénegôu
che a tûtte ë ricchesse a l’argentu e l’öu
Sinán gh’a lasciòu de luxî au sü
giastemmandu Mumä au postu du Segnü”.
Ma Scipione bestemmiando Maometto al posto del Signore fece presto carriera dimostrando coraggio e abilità nautiche salvò la vita ad un importante e potente Bey (nobile ottomano).
Le sue vicende incrociarono con alterne fortune i sultanati di Solimano I il Magnifico, Selim II, Murad III e Maometto III.
Cicala si distinse in numerose scorribande piratesche lungo le coste del sud in generale e della Calabria in particolare fino ad ottenere il massimo dei riconoscimenti dal Sultano Maometto III: Sinán Capudán Pasciá, cioè “il genovese grande ammiraglio della flotta ottomana”.
Cağaloğlu Sinan Kapudan Paşa conosciuto anche per assonanze fonetiche come Sinan Bassà diventerà persino per breve tempo Gran Visir e Serraschiere del Sultano di Costantinopoli.
Teste fascië ‘nscià galéa ë sciabbre se zeugan a lûn-a a mæ a l’è restà duv’a a l’éa pe nu remenalu ä furtûn-a
Teste fasciate sulla galea le sciabole si giocano la luna la mia è rimasta dov’era per non stuzzicare la fortuna
intu mezu du mä gh’è ‘n pesciu tundu che quandu u vedde ë brûtte u va ‘nsciù fundu
in mezzo al mare c’è un pesce tondo che quando vede le brutte va sul fondo
intu mezu du mä gh’è ‘n pesciu palla che quandu u vedde ë belle u vegne a galla
in mezzo al mare c’è un pesce palla che quando vede le belle viene a galla
E au postu d’i anni ch’ean dedexenueve se sun piggiaë ë gambe e a mæ brasse neuve d’allua a cansún l’à cantà u tambûu e u lou s’è gangiou in travaggiu dûu
E al posto degli anni che erano diciannove si sono presi le gambe e le mie braccia da allora la canzone l’ha cantata il tamburo e il lavoro è diventato fatica
vuga t’è da vugâ prexuné e spuncia spuncia u remu fin au pë vuga t’è da vugâ turtaiéu e tia tia u remmu fin a u cheu
voga devi vogare prigioniero e spingi spingi il remo fino al piede voga devi vogare imbuto (= mangione) e tira tira il remo fino al cuore
e questa a l’è a ma stöia e t’ä veuggiu cuntâ ‘n po’ primma ch’à vegiàià a me peste ‘ntu murtä
e questa è la mia storia e te la voglio raccontare un po’ prima che la vecchiaia mi pesti nel mortaio
e questa a l’è a memöia a memöia du Cigä ma ‘nsci libbri de stöia Sinán Capudán Pasciá
e questa è la memoria la memoria del Cicala ma sui libri di storia Sinán Capudán Pasciá
E suttu u timun du gran cäru c’u muru ‘nte ‘n broddu de fàru ‘na neutte ch’u freidu u te morde u te giàscia u te spûa e u te remorde
e sotto il timone del gran carro con la faccia in un brodo di farro una notte che il freddo ti morde ti mastica ti sputa e ti rimorde
e u Bey assettòu u pensa ä Mecca e u vedde ë Urì ‘nsce ‘na secca ghe giu u timùn a lebecciu sarvàndughe a vitta e u sciabeccu
e il Bey seduto pensa alla Mecca e vede le Uri su una secca gli giro il timone a libeccio salvandogli la vita e lo sciabecco
amü me bell’amü a sfurtûn-a a l’è ‘n grifun ch’u gia ‘ngiu ä testa du belinun amü me bell’amü
amore mio bell’amore la sfortuna è un avvoltoio che gira intorno alla testa dell’imbecille amore mio bell’amore
a sfurtûn-a a l’è ‘n belin ch’ù xeua ‘ngiu au cû ciû vixín e questa a l’è a ma stöia e t’ä veuggiu cuntâ
la sfortuna è un cazzo che vola intorno al sedere più vicino e questa è la mia storia e te la voglio raccontare
‘n po’ primma ch’à a
vegiàià
a me peste ‘ntu murtä
e questa a l’è a memöia
a memöia du Cigä
ma ‘nsci libbri de stöia
Sinán Capudán Pasciá.
un po’ prima che la
vecchiaia
mi pesti nel mortaio
e questa è la memoria
la memoria di Cicala
ma sui libri di storia
Sinán Capudán Pasciá
E digghe a chi me ciamma rénegôu che a tûtte ë ricchesse a l’argentu e l’öu Sinán gh’a lasciòu de luxî au sü giastemmandu Mumä au postu du Segnü
E digli a chi mi chiama rinnegato che a tutte le ricchezze all’argento e all’oro Sinán ha concesso di luccicare al sole bestemmiando Maometto al posto del Signore
intu mezu du mä gh’è ‘n pesciu tundu che quandu u vedde ë brûtte u va ‘nsciù fundu intu mezu du mä gh’è ‘n pesciu palla che quandu u vedde ë belle u vegne a galla
in mezzo al mare c’e un pesce tondo che quando vede le brutte va sul fondo in mezzo al mare c’è un pesce palla che quando vede le belle viene a galla.
A Istanbul il prestigio dei genovesi è testimoniato non solo dal quartiere Galata con relativa torre simbolo tuttora della città ma anche dalla contrada che ancora oggi, portandone il nome, celebra il nostro eroe:
Cağaloğlu (poiché oglu significa figlio, il figlio di Cigala).
I primi decenni del ‘400 sono quelli del dominio visconteo. Genova, dilaniata dalle lotte intestine, si da in signoria interrompendo l’ormai secolare dogato, al casato di Filippo Maria Visconti Duca di Milano.
Al timone del governo cittadino si succedono così diversi commissari l’ultimo dei quali, nel 1432 il lombardo Opizzino d’Alzate.
Il Duca aveva a tal punto sfruttato per i propri interessi le risorse finanziarie della città che nelle altre corti italiche si paragonava la Superba ad una pecora ormai, più che tosata, spoglia della propria pelle.
La misura fu colma quando, a seguito dall’epica difesa di Gaeta assediata dagli aragonesi, i genovesi vincitori a Ponza, furono umiliati dalla contorta e boriosa politica viscontea.
Fu così che il 27 dicembre del 1435 i nobili capeggiati da Francesco Spinola eroe di Ponza e Tommaso Fregoso si unirono ai popolari e catturarono il commissario milanese Opizzino d’Alzate.
La caccia all’uomo si concluse all’angolo con Salita San Siro 8 dove, come ricordato da apposita lapide, Opizzino venne, a furor di popolo, sommariamente giustiziato.
«Opizzino di Alzate tiranno per impeto di popolo qui perdeva lo stato e la vita»
Ma le ire dei nostri avi non si placarono con l’omicidio del governatore in carica.
Anche il suo successore Erasmo Trivulzio – infatti – fu costretto a rifugiarsi nel Castelletto.
Trivulzio, dopo aver ceduto il comando della fortezza, venne graziato a condizione di essere affiancato al potere da “otto capitani della libertà” (fra i quali Spinola e Fregoso).
Fu un temporaneo compromesso di potere perché i Genovesi, pochi mesi dopo, riprenderanno le loro lotte intestine per assicurarsi il dogato nel frattempo ripristinato.