A meglio identificare la Lanterna con la città, nel 1340 venne dipinto alla sommità della torre inferiore lo stemma del Comune di Genova, opera del pittore Evangelista di Milano.
Il maestoso simbolo misura ben 80 metri quadrati, 10 metri d’altezza dello scudo, per una larghezza nei punti massimi di 8 metri.
In passato lo stemma era già stato “rinfrescato” varie volte, l’ultima delle quali nel 1992, in occasione delle Colombiadi.
Per questo motivo il personale della ditta Formento Restauri, incaricata del ripristino, ha effettuato cinque prelievi di pellicola pittorica e di intonaco in cinque punti diversi.
Dalle relative e puntuali analisi è emerso che nel tempo alcune parti sono state “semplificate”, uniformando le due diverse gradazioni di rosso e le due di giallo-oro in un solo rosso e un solo giallo.
Gli operai artisti di Formento non solo sono riusciti a replicare le sfumature della tinteggiatura originale, ma si sono attivati anche per far riaffiorare alcune iscrizioni fino ad oggi diventate illeggibili o quasi.
Il tutto, naturalmente, si è svolto sotto gli attenti controlli della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Genova e le province di Imperia, La Spezia e Savona con i sopralluoghi del dottor Franco Boggero e dell’architetto Francesca Passano.
Formento Restauri ha impegnato, nelle varie fasi, da due a quattro persone simultaneamente “in quota”, tra cui una restauratrice professionista, naturalmente qualificata per questa acrobatica tecnica di lavoro.
Nella versione attuale il santuario delle Grazie, causa i bombardamenti della seconda guerra mondiale, si presenta in maniera anonima abbellito nell’antistante piazzetta dalla statua del Padre Santo (1963) di Guido Galletti.
Il tempio venne eretto nelle forme originarie nel XI sec. e fu intitolato alla Madonna delle Grazie per volere dei marinai. Costoro infatti, data la vicinanza al mare, lo elessero a loro santuario e meta delle loro suppliche.
Nel ‘500 l’edificio venne quasi completamente ricostruito. Solo il campanile, a bifore, resta orgoglioso testimone della primitiva struttura.
In realtà il sito posto sulla scogliera del Mandraccio è antichissimo. Secondo alcune fonti risalirebbe addirittura al V sec. d. C, dedicato ai santi Nazario e Celso, e sarebbe stato costruito, come la vicina ex cattedrale di S. Maria di Castello, per ordine del re longobardo Ariperto.
“Interni della cripta”. Foto di Anna Rosa Basile.
Negli anni ’50 del secolo scorso durante i lavori di ristrutturazione della sottostante cisterna gli operai fecero un inaspettato ritrovamento.
All’altezza dell’odierna Via Quadrio, al livello di quella che un tempo era la spiaggia, scoprirono una piccola cripta di origine romanica che, secondo le fonti, sarebbe il più antico tempio cristiano cittadino.
Qui secondo la tradizione sarebbero approdati i due santi martiri e vi avrebbero celebrato la prima messa iniziando l’evangelizzazione della nostra regione.
La cripta è visitabile ogni venerdì dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 18 grazie al prezioso contributo dei volontari di S. Maria di Castello.
In copertina foto della cripta di Anna Rosa Basile.
Qualche anno fa divenne la copertina di un divertente gioco da tavolo a tema storico intitolato “Zena 1814”. Tale erudito e piacevole passatempo è ambientato negli effimeri 8 mesi di indipendenza della Repubblica genovese compresi tra la caduta di Napoleone e il Congresso di Vienna (1814 – 1815) in seguito al quale Genova venne venduta dagli inglesi ai Savoia.
L’autore di questo quadro, il pittore olandese Pieter van Loon, immortala con dovizia di particolari una scena di vita quotidiana conferendole una straordinaria vivacità.
Ed è così che, con sapiente gioco di ombre e luci, di colori vividi alternati ad altri più tenui e di frizzante realismo, la strada si anima di una moltitudine di caratteristici personaggi che popolano botteghe ed osterie: marinai che giocano alla riffa, bambini che gironzolano per strada, garzoni e muli da soma che trasportano merci, una coppia a passeggio seguita da uno scolaro con i libri, popolane che chiacchierano tra di loro e con giovanotti, avvolte nei loro macramè.
A sinistra si vede un navigante appoggiato alla porta, forse in cerca di un ingaggio, che aspetta davanti agli uffici della Compagnia marittima di battelli a vapore – di cui si legge l’insegna – della linea Livorno Marseille.
A fianco un locale dalla cui sovrastante targa con la scritta “Stanza…” si deduce essere in affitto.
Vicino “Il Grande Albergo Bella…” supera il tendone di una bottega di legumi e cereali.
Al centro della strada si distinguono un gruppo di preti e un frate. Sul lato destro si notano una grande edicola votiva oggi scomparsa, una donna seduta sulla soglia di casa e la dicitura “Buon Vin ed a mangiare” che campeggia sulla sottostante osteria. Appesa alle corde una cesta si confonde fra i panni stesi.
L’imponente opera fu realizzata tra il 1718 e il 1724 dall’ingegnere francese Gerard de Langlade nell’ambito dei lavori di ricostruzione resisi necessari, ma iniziati solo qualche decennio, a causa dei bombardamenti del 1684 del re Sole.
Sullo sfondo i colori che si dissolvono con sapiente sfumatura nella prospettiva lasciano intendere una via assai trafficata e frequentata che restituisce al quartiere scomparso tutta la sua umana vitalità.
“Strada della Madre di Dio e Ponte di Carignan a Genova” 1847 olio su tela 61,5.x 90 cm. Pieter van Loon. Genova, Collezioni Banca Carige.
Raccontare il significato del 25 aprile, senza cadere nella retorica, a generazioni che ormai vivono il giorno della Liberazione come una pagina di storia sbiadita nel tempo, è impresa ardua.
Allora ho pensato di farlo attraverso le parole di un testimone di quei giorni che ne racconta le emozioni con gli occhi ingenui del bambino.
“Non ho mai dimenticato la sera del mio primo XXV aprile (o forse era il 26 ??) ricordo come fosse ora … ero in casa con mia madre e mio padre convalescente in seguito alle amputazioni dei piedi per cancrena durante la ritirata dal Don… quando improvvisamente iniziarono scoppi tremendi dal lato di Genova… la mia reazione fu pavloviana e scappai sotto al tavolo… uno dei soliti bombardamenti… – pensai – anche se non realizzavo completamente cosa fossero questi bombardamenti… ma i miei ne erano terrorizzati… poi vidi mia madre e mio padre pazzi di gioia abbracciarsi… mi recuperarono da sotto al tavolo e mi presero in braccio… inutile dire quanto fossi sorpreso, non avevo mai visto mia madre e mio padre ridere… ero smarrito e non capivo… mia madre dolcemente cercò di spiegarmi che erano “fuochi d’artificio”… parole nuove per me… e che scoppiavano perché la guerra era finita e con essa tutti i massacri e gli orrori… la mia unica reazione fu… i miei ci scherzarono per anni…”allora stasera posso dormire da solo ??? “.
Un abbraccio a tutti e un augurio che questo giorno sia festeggiato più col cuore che con la demagogia.
Lorenzo Van, testimone di quei giorni.
In copertina le formazioni partigiane sfilano il 26 aprile per Piazza De Ferrari e Via XX.
Questo anonimo torrione ormai dimenticato ed inglobato fra le irriverenti vicine abitazioni è quel che rimane della dugentesca torre campanaria della chiesa di San Siro.
Tale sciagurata ed affrettata decisione venne presa sull’onda emotiva generata appena due anni prima dal clamoroso crollo del campanile della Basilica di San Marco a Venezia.
Al tempo della Repubblica Ligure nel 1798, il governo per rimpinguare le esangui casse statali, casse istituì una tassa dal titolo assai curioso e pretenzioso:
“Sussidio patriottico sulle finestre “. Un modo come un altro per ridistribuire la ricchezza in un sistema, quello democratico della Repubblica, che si sostituiva a quello dell’oligarchia patrizia dell’Ancien Régime.
Beffarda trovata quella del funzionario dell’erario che ha inventato – passatemi il gioco di parole – l’imposta sulle imposte.
In sostanza a chi possedeva case con più di cinque finestre, fu richiesto un contributo calcolato sulla base del numero delle aperture sui muri esterni.
La balzana – è il caso di dirlo – imposta non piacque ai nobili che risultarono essere ovviamente i più danneggiati.
Costoro decisero così, pur di non versare l’odioso obolo, di murare le finestre esistenti e di sostituirle con quelle finte.
Alla luce si rinuncia ma non al gusto estetico ed ecco che si incaricano gli artigiani di decorare quegli spazi con l’ingannevole tecnica del Trompe – l’Oeil che fa sembrare tridimensionali come sculture dei semplici disegni.
Con certosina perizia in un gioco di pennelli, di contrasti di luci e ombre, di prospettive e colori, gli artisti riuscirono così a dipingere illusoriamente quello che non c’era: persiane, vasi di fiori, marmi e capitelli si mostrano ancora oggi ai nostri occhi in un magico immaginario.
La Grande Bellezza.
In copertina finestre murate sul palazzo ad angolo fra Via San Lorenzo e Piazza della Raibetta sopra la macelleria Balleari.
La preparazione del pesce alla ligure sia che sia fatta in umido o al forno implica una profonda relazione con il territorio.
Qualunque sia il pesce cucinato, dall’anciôa (acciuga), al loasso (branzino), la simbiosi con i prodotti dell’orto è inscindibile: aromi e odori come aggio (aglio), tùmou (timo), porsemmo (prezzemolo), persa (maggiorana), offèuggio (alloro), cornabüggia (origano), romanin (rosmarino), colàndro (coriandolo), sàrvia (salvia), baxaicò (basilico), ortiga (ortica); verdure come patàtte (patate), ciòule, (cipolle), suchinn-e (zucchine), tomatìnn-e (pomodorini ) oltre alle immancabili oîve, (olive) della riviera (fra cui le taggiasche), all’êuio d’oîva (olio extra vergine) nostrano e ai pigneu (pinoli).
Il legame di questi profumi rapportato al pesce non può prescindere dai vini bianchi con cui accompagnare la pietanza, autentici capolavori, estorti con sudore e sacrificio alla natura con inestimabile passione e perizia dai viticoltori: da ponente a levante – solo per citare i più noti – Valpolcevera nostrano, Coronata, Bianchetta Genovese, Vermentino di entrambe le riviere, Pigato di Albenga, Cinque Terre, Sciacchetrà e bianco Colli di Luni.
Uscendo dal classico binomio pesce vino bianco non vanno tuttavia dimenticati i rosati fra i quali spiccano l’Ormeasco e lo Sciac – trà di Pornassio (ma possono essere anche rosso o passito) e i rossi, più adatti forse alle zuppe e alle buridde, come Ciliegiolo del Tigullio, Granaccia delle colline savonesi e Rossese di Dolceacqua.
Scriveva in proposito con mirabile sintesi poetica e amore per la propria terra Vittorio G. Rossi nel suo “Vino e cibi di Liguria”:
“Mangiavamo quelle cose con un godimento segreto, ma pensando che gli altri mangiavano il pane degli angeli e noi quelle robette fatte dalle nostre nonne, madri, zie e sorelle dalla faccia come un’ascia d’arrembaggio. Ora si sono accorti che quella era una grande cucina, si sono accorti dei nostri vini fatti dalla pietra, dal sole, dal respiro del mare e hanno il profumo dell’alba nelle calme di luglio”.
In copertina pesce castagna (rondanin) alla ligure (con libera aggiunta di zucchine dell’orto) pronto per essere infornato.
Assai avventurosa e di difficoltosa tracciabilità è la vicenda legata agli spostamenti delle ceneri di Cristoforo Colombo confuse, secondo alcuni studiosi, se non addirittura mischiate, con quelle del figlio Diego al tempo in cui quelle di entrambi erano ricoverate a Santo Domingo.
Da qui l’annosa diatriba, tuttora in evoluzione, che assume i nebulosi ma intriganti contorni del giallo internazionale che si dipana sostanzialmente lungo due filoni: quello, il primo, che asserisce che le spoglie del navigatore siano a Siviglia per via cubana, e l’altro, il secondo che invece le assegna, per il percorso dominicano, spartite tra Pavia e Genova.
Per questo motivo numerose sono le località che ne vantano – o ne hanno vantato – per lo meno un parziale possesso: Valladolid, Siviglia, Santo Domingo, Cuba, Venezuela, Stati Uniti, Cadice, Pavia, Genova.
“Raccolta del Municipio in cui si racconta la donazione dominicana delle ceneri”
Nel 1877 infatti i resti del corpo all’interno della tomba monumentale di Siviglia furono identificati come quelli del figlio di Colombo e si scoprì così che le spoglie dell’esploratore erano rimaste ancora a Santo Domingo.
A quel tempo i fatti le ceneri di Colombo erano state affidate da Gio Batta Cambiaso, console di Santo Domingo al fratello Luigi, console italiano dell”isola caraibica, che le aveva ripartite in tre parti:
una parte fu inviata a Genova; un’altra parte, la seconda, fu mandata in Venezuela, prima terraferma scoperta da Cristoforo Colombo e l’ultima, la terza, fu spedita erroneamente a Pavia, perché si credeva che il celebre esploratore avesse studiato in quella famosa Università.
Cristoforo Colombo morì infatti il 20 maggio 1506 in Spagna e fu sepolto il giorno successivo nella cappella di Santa Maria de la Antigua nella chiesa di San Francesco a Valladolid.
“Tomba a Santo Domingo”.
Nell’aprile 1509 il figlio Diego, dando inizio alle avventurose peregrinazioni, fece trasportare la salma a Siviglia nella cappella di Sant’Anna nella Cartuja di Santa Maria de las Cuevas dove, una iscrizione recita” A Castilla y a León, Nuevo Mundo diò Colón”.
Fu poi l’Imperatore Carlos I che, in Valladolid il 2 giugno 1537 con “Real Cédula”, concesse a doña María de Toledo di trasferire e deporre i resti di Colón, come il genovese stesso aveva sempre desiderato, nella cappella maggiore della cattedrale di Santo Domingo nell’isola di Hispaniola.
Nel 1541 i resti dell’Ammiraglio vennero quindi collocati nella cappella dell’altar maggiore della chiesa di San Francesco a Santo Domingo dove già si trovavano sepolti altri congiunti come il figlio Diego, i nipoti Luigi e Cristoforo II, il fratelli Bartolomeo e altri membri della famiglia.
“Il carro che trasportava l’urna con le ceneri dell’esploratore”. Foto originale di Giovanni Benzo.
Passano i secoli ma Colombo non trova requie: col trattato di Basilea del 22 luglio 1795 infatti la Spagna cedette alla Francia la parte orientale dell’isola di Hispaniola, Santo Domingo, che ancora occupava.
In concomitanza di quello storico passaggio di consegne l’Ammiraglio spagnolo Don Gabriel de Aristigabal ottenne dal governo francese l’autorizzazione di trasferire le ceneri di Cristoforo Colombo nell’isola di Cuba.
Così il 20 dicembre 1795 dopo una solenne cerimonia nella cattedrale di Santo Domingo, le preziose reliquie furono imbarcate sul brigantino francese “La Découverte” e trasbordate sul vascello spagnolo “San Lorenzo” per essere traslate nella cattedrale dell’Havana a Cuba.
Come prassi del codice della navigazione il porto si fermò in rispettoso silenzio mentre le navi presenti in rada spararono diversi colpi a salve e resero ai resti di Cristoforo Colombo gli onori militari dovuti ad un Ammiraglio di cotanto lignaggio.
Ma le peripezie non finirono qui perché, conseguenza del Trattato di Parigi del 1898 che sanciva l’isola di Cuba come possedimento degli Stati Uniti, il governo spagnolo stabilì di riportare le spoglie di Cristoforo a Siviglia.
“Mausoleo di Siviglia”.
Il trasporto venne effettuato in pompa magna con tutti gli onori a bordo della nave da guerra “Conde de Venadito” che viaggiò da Cuba sino a Cadice.
A Cadice le spoglie vennero trasbordate sullo yacht reale “Giralda” che risalì il Guadalquivir con le bandiere a mezz’asta ma lasciando bene in vista lo stemma dell’Ammiraglio, ancorando a Siviglia il 19 gennaio 1899 .
A Siviglia le ceneri vennero poi sbarcate e portate definitivamente nella cattedrale del capoluogo andaluso.
“La cerimonia della consegna sotto l’Arco dei Caduti”. Foto originale di Giovanni Benzo.
La parte delle ceneri genovesi provenienti da Santo Domingo furono riconsegnate (recuperandole dal ratto tedesco) il 31 maggio 1945 in Piazza della Vittoria dal generale della 92^ divisione fanteria USA ” Buffalo Soldier Division”:
“Oggi come comandante delle Forze americane in Genova, restituisco alla vostra città queste ceneri di un vostro figlio famoso, nello stesso modo con cui le nostre truppe hanno restituito a Genova la pace e la sicurezza poco più di un mese fa.
La teca presso il Galata Museo con le Ceneri di Colombo
Questo simbolo che era stato asportato dalla città dalle forze sinistre dei vostri recenti oppressori vi è ora restituita”.
Da qui vennero trasferite nel Municipio genovese a palazzo Tursi dove rimasero al sicuro per diversi decenni.
Oggi, nella speranza che l’Odissea sia terminata, l’ampolla di Colombo si trova sempre a Genova, ma ha cambiato domicilio ed è custodita, in una sala appositamente dedicata al nostro illustre concittadino, al Museo Galata.
In copertina l’ottocentesco Monumento di Colombo in Piazza Acquaverde a Genova. Foto di Bruno Evrinetti.
“Preferisco Genova a tutte le città in cui ho abitato. È che mi ci sento sperduto e a casa mia – fanciullo e straniero. Essa ha una distesa di cupole, monti calvi, mare, fumi, neri fogliami, tetti rosa, e quella Lanterna, così alta ed elegante”.
Cit. Paul Valery scrittore francese (1871 – 1945).
Dal colle del Brolio si dipanava, per sfociare in mare, la chiavica lunga, il rio da cui il toponimo della zona medievale.
A fianco del fossato si ergevano le mura della seconda cinta muraria cittadina (di cui si ha notizia) demolite, per riutilizzare i conci nella costruzione di nuove case, intorno all’anno 1000.
Nel XIV secolo, con la definitiva copertura della chiavica e con l’abbattimento delle ultime abitazioni in legno, la contrada cambiò completamente assetto.
Fu allora che la nobile famiglia dei Giustiniani iniziò qui la costruzione dei propri sontuosi palazzi.
Allargò, sul tracciato del vecchio rivo, il caruggio che divenne così ampio da costituire la più importante e frequentata arteria della città.
Fra questi il principale edificio è senz’altro quello di Marcantonio Giustiniani realizzato per volere del cardinale Vincenzo, generale dell’ordine dei domenicani, successivamente intitolato in onore dell’illustre doge veneziano.
L’imponente struttura in realtà è il risultato dell’accorpamento di due edifici medievali avvenuto a partire dal XVII sec.
Sulla sinistra della piazzetta è conservato ancora un brano dell’originale pavimentazione in laterizio.
All’esterno il palazzo presenta un semplice portale con cornice marmorea con arco a tutto sesto sormontato dallo stemma di famiglia.
L’elegante facciata è invece un tripudio di decorazioni architettoniche a fresco con disegnate le insegne del casato e busti sulle finestre.
Sul lato destro è incastonato il celebre leone di San Marco preso a Trieste nel 1380 dopo la battaglia di Chioggia.
“L’atrio con scaloni e ninfeo”.
Varcato il portone si apre un atrio colonnato con maestosa volta a padiglione:
quattro porte in pietra nera sovrastate da busti marmorei, realizzati da Bartolomeo Spazio e Daniele Solaro, rappresentano personaggi illustri della famiglia (il cardinale Benedetto,il doge Francesco Vincenzo, il poeta Giuseppe e il generale domenicano Vincenzo).
Immancabile sulla sinistra, a testimonianza dell’indiscusso prestigio del ramo genovese dei Giustiniani, un bassorilievo in pietra di San Giorgio e il drago, fra due stemmi.
Sulla destra si trova, allegoria dell’Abbondanza, un altro bassorilievo in marmo con cornucopie, genietti e festoni.
Sotto, a cementare il legame del sovranazionale casato con la città, è posta una piccola e recente edicola in ceramica della Madonna della Guardia.
Sul fondo dell’atrio si aprono due scenografici scaloni con al centro uno spettacolare ninfeo con la statua in groppa di un delfino e vasca decorata con stemma di famiglia e teste di leone.
Da qui si accede a quella che, all’angolo fra i due palazzi originari, era la loggia. Venne chiusa a metà del ‘800 in concomitanza con la sopraelevazione di due piani del palazzo.
Nella loggia con colonne doriche è collocato un secondo ninfeo senza vasca, con volta a conchiglia e un grande pesce in stucco.