Questo anonimo torrione ormai dimenticato ed inglobato fra le irriverenti vicine abitazioni è quel che rimane della dugentesca torre campanaria della chiesa di San Siro.
Tale sciagurata ed affrettata decisione venne presa sull’onda emotiva generata appena due anni prima dal clamoroso crollo del campanile della Basilica di San Marco a Venezia.
Al tempo della Repubblica Ligure nel 1798, il governo per rimpinguare le esangui casse statali, casse istituì una tassa dal titolo assai curioso e pretenzioso:
“Sussidio patriottico sulle finestre “. Un modo come un altro per ridistribuire la ricchezza in un sistema, quello democratico della Repubblica, che si sostituiva a quello dell’oligarchia patrizia dell’Ancien Régime.
Beffarda trovata quella del funzionario dell’erario che ha inventato – passatemi il gioco di parole – l’imposta sulle imposte.
In sostanza a chi possedeva case con più di cinque finestre, fu richiesto un contributo calcolato sulla base del numero delle aperture sui muri esterni.
La balzana – è il caso di dirlo – imposta non piacque ai nobili che risultarono essere ovviamente i più danneggiati.
Costoro decisero così, pur di non versare l’odioso obolo, di murare le finestre esistenti e di sostituirle con quelle finte.
Alla luce si rinuncia ma non al gusto estetico ed ecco che si incaricano gli artigiani di decorare quegli spazi con l’ingannevole tecnica del Trompe – l’Oeil che fa sembrare tridimensionali come sculture dei semplici disegni.
Con certosina perizia in un gioco di pennelli, di contrasti di luci e ombre, di prospettive e colori, gli artisti riuscirono così a dipingere illusoriamente quello che non c’era: persiane, vasi di fiori, marmi e capitelli si mostrano ancora oggi ai nostri occhi in un magico immaginario.
La Grande Bellezza.
In copertina finestre murate sul palazzo ad angolo fra Via San Lorenzo e Piazza della Raibetta sopra la macelleria Balleari.
La preparazione del pesce alla ligure sia che sia fatta in umido o al forno implica una profonda relazione con il territorio.
Qualunque sia il pesce cucinato, dall’anciôa (acciuga), al loasso (branzino), la simbiosi con i prodotti dell’orto è inscindibile: aromi e odori come aggio (aglio), timo, porsemmo (prezzemolo), persa (maggiorana), offèuggio (alloro), cornabüggia (origano), romanin (rosmarino), colàndro (coriandolo), sàrvia (salvia), baxaicò (basilico), ortiga (ortica); verdure come patàtte (patate), ciòule, (cipolle), suchinn-e (zucchine), tomatìnn-e (pomodorini ) oltre alle immancabili oîve, (olive) della riviera (fra cui le taggiasche), all’êuio d’oîva (olio extra vergine) nostrano e ai pigneu (pinoli).
Il legame di questi profumi rapportato al pesce non può prescindere dai vini bianchi con cui accompagnare la pietanza, autentici capolavori, estorti con sudore e sacrificio alla natura con inestimabile passione e perizia dai viticoltori: da ponente a levante – solo per citare i più noti – Valpolcevera nostrano, Coronata, Bianchetta Genovese, Vermentino di entrambe le riviere, Pigato di Albenga, Cinque Terre, Sciacchetrà e bianco Colli di Luni.
Uscendo dal classico binomio pesce vino bianco non vanno tuttavia dimenticati i rosati fra i quali spiccano l’Ormeasco e lo Sciac – trà di Pornassio (ma possono essere anche rosso o passito) e i rossi, più adatti forse alle zuppe e alle buridde, come Ciliegiolo del Tigullio, Granaccia delle colline savonesi e Rossese di Dolceacqua.
Scriveva in proposito con mirabile sintesi poetica e amore per la propria terra Vittorio G. Rossi nel suo “Vino e cibi di Liguria”:
“Mangiavamo quelle cose con un godimento segreto, ma pensando che gli altri mangiavano il pane degli angeli e noi quelle robette fatte dalle nostre nonne, madri, zie e sorelle dalla faccia come un’ascia d’arrembaggio. Ora si sono accorti che quella era una grande cucina, si sono accorti dei nostri vini fatti dalla pietra, dal sole, dal respiro del mare e hanno il profumo dell’alba nelle calme di luglio”.
In copertina pesce castagna (rondanin) alla ligure (con libera aggiunta di zucchine dell’orto) pronto per essere infornato.
Assai avventurosa e di difficoltosa tracciabilità è la vicenda legata agli spostamenti delle ceneri di Cristoforo Colombo confuse, secondo alcuni studiosi, se non addirittura mischiate, con quelle del figlio Diego al tempo in cui quelle di entrambi erano ricoverate a Santo Domingo.
Da qui l’annosa diatriba, tuttora in evoluzione, che assume i nebulosi ma intriganti contorni del giallo internazionale che si dipana sostanzialmente lungo due filoni: quello, il primo, che asserisce che le spoglie del navigatore siano a Siviglia per via cubana, e l’altro, il secondo che invece le assegna, per il percorso dominicano, spartite tra Pavia e Genova.
Per questo motivo numerose sono le località che ne vantano – o ne hanno vantato – per lo meno un parziale possesso: Valladolid, Siviglia, Santo Domingo, Cuba, Venezuela, Stati Uniti, Cadice, Pavia, Genova.
Nel 1877 infatti i resti del corpo all’interno della tomba monumentale di Siviglia furono identificati come quelli del figlio di Colombo e si scoprì così che le spoglie dell’esploratore erano rimaste ancora a Santo Domingo.
A quel tempo i fatti le ceneri di Colombo erano state affidate da Gio Batta Cambiaso, console di Santo Domingo al fratello Luigi, console italiano dell”isola caraibica, che le aveva ripartite in tre parti:
una parte fu inviata a Genova; un’altra parte, la seconda, fu mandata in Venezuela, prima terraferma scoperta da Cristoforo Colombo e l’ultima, la terza, fu spedita erroneamente a Pavia, perché si credeva che il celebre esploratore avesse studiato in quella famosa Università.
Cristoforo Colombo morì infatti il 20 maggio 1506 in Spagna e fu sepolto il giorno successivo nella cappella di Santa Maria de la Antigua nella chiesa di San Francesco a Valladolid.
Nell’aprile 1509 il figlio Diego, dando inizio alle avventurose peregrinazioni, fece trasportare la salma a Siviglia nella cappella di Sant’Anna nella Cartuja di Santa Maria de las Cuevas dove, una iscrizione recita” A Castilla y a León, Nuevo Mundo diò Colón”.
Fu poi l’Imperatore Carlos I che, in Valladolid il 2 giugno 1537 con “Real Cédula”, concesse a doña María de Toledo di trasferire e deporre i resti di Colón, come il genovese stesso aveva sempre desiderato, nella cappella maggiore della cattedrale di Santo Domingo nell’isola di Hispaniola.
Nel 1541 i resti dell’Ammiraglio vennero quindi collocati nella cappella dell’altar maggiore della chiesa di San Francesco a Santo Domingo dove già si trovavano sepolti altri congiunti come il figlio Diego, i nipoti Luigi e Cristoforo II, il fratelli Bartolomeo e altri membri della famiglia.
Passano i secoli ma Colombo non trova requie: col trattato di Basilea del 22 luglio 1795 infatti la Spagna cedette alla Francia la parte orientale dell’isola di Hispaniola, Santo Domingo, che ancora occupava.
In concomitanza di quello storico passaggio di consegne l’Ammiraglio spagnolo Don Gabriel de Aristigabal ottenne dal governo francese l’autorizzazione di trasferire le ceneri di Cristoforo Colombo nell’isola di Cuba.
Così il 20 dicembre 1795 dopo una solenne cerimonia nella cattedrale di Santo Domingo, le preziose reliquie furono imbarcate sul brigantino francese “La Découverte” e trasbordate sul vascello spagnolo “San Lorenzo” per essere traslate nella cattedrale dell’Havana a Cuba.
Come prassi del codice della navigazione il porto si fermò in rispettoso silenzio mentre le navi presenti in rada spararono diversi colpi a salve e resero ai resti di Cristoforo Colombo gli onori militari dovuti ad un Ammiraglio di cotanto lignaggio.
Ma le peripezie non finirono qui perché, conseguenza del Trattato di Parigi del 1898 che sanciva l’isola di Cuba come possedimento degli Stati Uniti, il governo spagnolo stabilì di riportare le spoglie di Cristoforo a Siviglia.
Il trasporto venne effettuato in pompa magna con tutti gli onori a bordo della nave da guerra “Conde de Venadito” che viaggiò da Cuba sino a Cadice.
A Cadice le spoglie vennero trasbordate sullo yacht reale “Giralda” che risalì il Guadalquivir con le bandiere a mezz’asta ma lasciando bene in vista lo stemma dell’Ammiraglio, ancorando a Siviglia il 19 gennaio 1899 .
A Siviglia le ceneri vennero poi sbarcate e portate definitivamente nella cattedrale del capoluogo andaluso.
La parte delle ceneri genovesi provenienti da Santo Domingo furono riconsegnate (recuperandole dal ratto tedesco) il 31 maggio 1945 in Piazza della Vittoria dal generale della 92^ divisione fanteria USA ” Buffalo Soldier Division”:
“Oggi come comandante delle Forze americane in Genova, restituisco alla vostra città queste ceneri di un vostro figlio famoso, nello stesso modo con cui le nostre truppe hanno restituito a Genova la pace e la sicurezza poco più di un mese fa.
Questo simbolo che era stato asportato dalla città dalle forze sinistre dei vostri recenti oppressori vi è ora restituita”.
Da qui vennero trasferite nel Municipio genovese a palazzo Tursi dove rimasero al sicuro per diversi decenni.
Oggi, nella speranza che l’Odissea sia terminata, l’ampolla di Colombo si trova sempre a Genova, ma ha cambiato domicilio ed è custodita, in una sala appositamente dedicata al nostro illustre concittadino, al Museo Galata.
In copertina l’ottocentesco Monumento di Colombo in Piazza Acquaverde a Genova. Foto di Bruno Evrinetti.
“Preferisco Genova a tutte le città in cui ho abitato. È che mi ci sento sperduto e a casa mia – fanciullo e straniero. Essa ha una distesa di cupole, monti calvi, mare, fumi, neri fogliami, tetti rosa, e quella Lanterna, così alta ed elegante”.
Cit. Paul Valery scrittore francese (1871 – 1945).
Dal colle del Brolio si dipanava, per sfociare in mare, la chiavica lunga, il rio da cui il toponimo della zona medievale.
A fianco del fossato si ergevano le mura della seconda cinta muraria cittadina (di cui si ha notizia) demolite, per riutilizzare i conci nella costruzione di nuove case, intorno all’anno 1000.
Nel XIV secolo, con la definitiva copertura della chiavica e con l’abbattimento delle ultime abitazioni in legno, la contrada cambiò completamente assetto.
Fu allora che la nobile famiglia dei Giustiniani iniziò qui la costruzione dei propri sontuosi palazzi.
Allargò, sul tracciato del vecchio rivo, il caruggio che divenne così ampio da costituire la più importante e frequentata arteria della città.
Fra questi il principale edificio è senz’altro quello di Marcantonio Giustiniani realizzato per volere del cardinale Vincenzo, generale dell’ordine dei domenicani, successivamente intitolato in onore dell’illustre doge veneziano.
L’imponente struttura in realtà è il risultato dell’accorpamento di due edifici medievali avvenuto a partire dal XVII sec.
Sulla sinistra della piazzetta è conservato ancora un brano dell’originale pavimentazione in laterizio.
All’esterno il palazzo presenta un semplice portale con cornice marmorea con arco a tutto sesto sormontato dallo stemma di famiglia.
L’elegante facciata è invece un tripudio di decorazioni architettoniche a fresco con disegnate le insegne del casato e busti sulle finestre.
Sul lato destro è incastonato il celebre leone di San Marco preso a Trieste nel 1380 dopo la battaglia di Chioggia.
Varcato il portone si apre un atrio colonnato con maestosa volta a padiglione:
quattro porte in pietra nera sovrastate da busti marmorei, realizzati da Bartolomeo Spazio e Daniele Solaro, rappresentano personaggi illustri della famiglia (il cardinale Benedetto,il doge Francesco Vincenzo, il poeta Giuseppe e il generale domenicano Vincenzo).
Immancabile sulla sinistra, a testimonianza dell’indiscusso prestigio del ramo genovese dei Giustiniani, un bassorilievo in pietra di San Giorgio e il drago, fra due stemmi.
Sulla destra si trova, allegoria dell’Abbondanza, un altro bassorilievo in marmo con cornucopie, genietti e festoni.
Sotto, a cementare il legame del sovranazionale casato con la città, è posta una piccola e recente edicola in ceramica della Madonna della Guardia.
Sul fondo dell’atrio si aprono due scenografici scaloni con al centro uno spettacolare ninfeo con la statua in groppa di un delfino e vasca decorata con stemma di famiglia e teste di leone.
Da qui si accede a quella che, all’angolo fra i due palazzi originari, era la loggia. Venne chiusa a metà del ‘800 in concomitanza con la sopraelevazione di due piani del palazzo.
Nella loggia con colonne doriche è collocato un secondo ninfeo senza vasca, con volta a conchiglia e un grande pesce in stucco.
Nella chiesa di S. Stefano è conservato uno dei quadri più importanti di tutto il ‘500, la “Lapidazione di Santo Stefano” di Giulio Pippi de’ Jannuzzi, detto il Romano.
Se Rubens a Genova con il morbido stile della sua “Circoncisione” influenzò il ‘600, Romano fece altrettanto con la sua raffaellesca “Lapidazione” per il ‘500.
Quest’opera divenne infatti punto di riferimento e modello della riscoperta della grande cultura romana che l’illustre artista manierista portò al nord a Genova, prima ancora che a Milano, Mantova e Venezia.
Il Martirio di S. Stefano rappresenta infatti il monumento, il trionfo, l’apogeo del classicismo, una vera e propria celebrazione del maestro indiscusso del Rinascimento, l’appena scomparso Raffaello.
L’opera in origine commissionata nel 1519 al genio urbinate l’anno prima della sua morte, fu invece realizzata nelle Stanze Vaticane dal suo allievo Giulio Romano che, evidentemente, aveva avuto modo di vedere i disegni e i bozzetti del Maestro.
Ma il Romano non procede solo ad una fedele e puntuale esecuzione dell’opera: laddove possibile – infatti – osa, riuscendo nel suo ambizioso intento, migliorare il progetto dell’illustre mentore con qualche personale e azzeccata correzione.
Ed ecco quindi che il Martire, protagonista assoluto, sta al centro, mentre i suoi assassini gli si schierano attorno a semicerchio.
Tra l’apparizione della Trinità in cielo fra angeli che trasfigurano in pura luce e la scena del martirio, sulla linea dell’orizzonte si apre dunque uno spazio per un paesaggio di rovine, in una luce radente, quasi artificiale, certo innaturale perché emanata dall’aureola divina che il pittore fa coincidere con il sole.
L’artista cita poi monumenti antichi, terme, templi, ponti, obelischi e riesce a conferire sia dinamicità alla complessa scena che energia alla moltitudine dei personaggi e plasticità ai movimenti dei loro corpi.
Le terme romane in rovina sullo sfondo sono allegoria del decadimento morale e fisico del mondo pagano che, proprio dai ruderi dell’edificio classico, attinge le pietre per compiere la lapidazione del santo.
L’immagine del volto di Stefano che appare serenamente rassegnato in accentuato contrasto con le indemoniate e bestiali espressioni dei suoi carnefici conferisce alla rappresentazione una potenza sovrumana.
“E’ classificabile tra i veleni corrosivi, tra i fermentativi, e tra i vaporosi; e quanto alla sua sostanza, non dubito d’affermare che sia un sottilissimo Arsenico”.
Con queste parole il settecentesco medico Bartolomeo Alizeri descriveva il morbo nel suo “Della peste, cioè della sua natura, e de’ Rimedi per la preservazione e per la cura” e definiva il flagello principe, la morte nera, uno dei quattro cavalieri dell’Apocalisse.
Nella parte inferiore del quadro si nota un gruppo di monatti all’opera nei pressi dell’erigendo Albergo dei Poveri, intenti a seppellire i cadaveri degli appestati.
La scena immortalata fotografa l’epidemia di “manzoniana memoria” del 1630, cui l’artista stesso era sopravvissuto e che aveva causato 50000 vittime.
Non meno catastrofica fu quella, forse ancor più celebre, del 1656/1657 che secondo alcuni diminuì di due quinti, per altri addirittura dimezzò la popolazione, che annoverava a quel tempo circa 90000 abitanti.
Nella primavera del 1656 si manifestarono i primi casi, in forte aumento nei mesi estivi; l’inverno parve rallentare la diffusione del morbo ma all’inizio dell’anno successivo la peste esplose nuovamente in tutta la sua nefasta virulenza.
Non fu sufficiente, vista l’emergenza, trasformare solo l’ospedale di Pammatone in lazzaretto, ma fu necessario approntarne altri: a quelli realizzati presso la chiesa della Consolazione e nella zona della Foce se ne aggiunsero presto altri a Sampierdarena, Cornigliano e nel resto della regione.
La medicina brancolava nel buio adottando rimedi assai poco scientifici come, ad esempio, l’utilizzo come medicamento di polveri di pietre preziose che spesso – invece che guarire – fungevano da veleno.
Anche le precauzioni erano piuttosto fantasiose: per limitare il contagio si aspergevano di aceto e profumi le missive provenienti da zone ritenute a rischio e, sulla base delle prescrizioni consigliate da Aristotele che riteneva tale cibo immune dal contagio, si raccomandava di consumare pesce.
Cautele più sensate che adottiamo ancora oggi erano invece quelle concernenti veti e blocchi relativi all’arrivo di merci e viaggiatori.
Inoltre gli indumenti dei sospetti contaminati, molto pragmaticamente, venivano come del resto i cadaveri delle vittime, bruciati.
Considerate le scarse condizioni igieniche del tempo non apparivano invece insensate misure quali la bonifica delle fognature e la dotazione di casacche di tela cerata per chi operava a stretto contatto con i contagiati.
La corporazione dei profumieri assumeva di conseguenza in questo contesto grande importanza e prestigio. A costoro era infatti affidato il compito sia di disinfestare i locali occupati dai malati che di predisporre, dotandola di sostanze, spezie, ed essenze odorose, la caratteristica maschera con il “becco” dei medici.
Nel ‘700 la peste parve allentare la presa ma solo per lasciare spazio nel secolo successivo ad un altro non meno spietato nemico: il colera.
Quelle del 1835, 1848/49, 1854, 1866/67 e 1884/1893 furono le epidemie più nefaste per la nostra città.
In copertina Madonna e san Simone Stock, 1657, della chiesa di Nostra Signora del Carmine.
“Nella primavera del 1657, in mezzo ad una lieta calma, si udì che il contagio di bel nuovo ripullulava; gli abitanti più agitati fuggivano dalla città, vedendo com’esso imperversando si annunziava piuttosto colla morte, che colla malattia: assai presto a migliaia n’erano spenti, onde una confusione indicibile rendeva inutili le cautele benefiche già prese.
Disertavano i magistrati nelle vicine ville: solo il magnanimo doge Giulio Sauli rimanevasi impavido, quantunque il fiero morbo fosse penetrato nello stesso palagio, e ne decimasse gli uffiziali e le guardie.
A rappresentare gli orrendi effetti dell’ineffabil disastro, e la strage immensa ch’iva facendo nel modo più miserevole, ci verrebbero meno gli acconci colori. Il savio e generoso doge bramava pure di arrecare qualche sollievo a sì gran calamità, ma ogni provvedimento riusciva indarno. Facea sibbene che i varii lazzaretti da lui di fresco stabiliti abbondassero d’ogni cosa necessaria: elargiva soccorsi a chiunque ne abbisognasse; non ometteva veruna diligenza perché si conservasse il buon ordine; e quantunque già il palazzo pubblico si vedesse pieno di morti, pure voleva che ne stessero aperte le porte, e dava libera udienza a chiunque ne richiedesse.
I lazzaretti rigurgitavano di moribondi, e di morti: venian meno i medici, i sacerdoti, gli infermieri, i farmaci, le provvigioni: vedevansi morti, o agonizzanti per le piazze, per le vie, per le case, per le scale: non s’incontravano che cadaveri malamente affastellati su carri e condotti a sepoltura… Il contagio sempre inferociva, e inferocì per lo spazio di diciassette mesi, durante i quali perirono nella sola Genova circa settanta mila persone”.
Brano tratto dal volume di Giovanni Battista Spotorno inserito nel “Dizionario Geografico Storico Statistico Commerciale de gli Stati di S. M. il Re di Sardegna” (Torino 1840).
Nel quadro del celebre artista sarzanese Domenico Fiasella, realizzato nel 1658 su commissione della Repubblica, si riconoscono oltre alla Lanterna, la loggia di Banchi e la chiesa di San Domenico.
In alto a sinistra si notano il Diavolo che soffia il suo pestilenziale alito sulla città e la Morte che mulina la sua imparziale falce. La nera mietitrice non fa distinzione tra nobili e poveri, colpendo sia gli uni riccamente addobbati, che gli altri o nudi o di stracci vestiti.
A fianco del faro cittadino è raffigurata una nave, protagonista di una storia assai curiosa, che si arena sulla scogliera di Sestri Ponente.
Tale imbarcazione colma di cadaveri era destinata infatti, come da prassi del tempo, a bruciare al largo ma, senza governo e a causa dei venti contrari, si schiantò sulla costa restituendo alla Superba, foriero di sventura, il mortifero e nauseabondo carico.
In copertina “La peste di Genova” dipinto di Domenico Fiasella. Collezione della Fondazione di Galleria Palazzo Franzoni Genova.
Alle 14.30 del 23 giugno del 1950 Stanlio ed Ollio scesero alla stazione di Piazza Principe ed alloggiarono al Bristol Hotel.
A giudicare dall’enorme folla che aveva bloccato il traffico nell’antistante Piazza Acquaverde la popolarità dei due comici, in declino in America, qui da noi era ancora all’apice.
La sera stessa, dopo una breve esibizione sul palco, parteciparono alla proiezione in loro onore di “Fra Diavolo” in un Carlo Felice ancora dilaniato dalle bombe e stracolmo di spettatori.
Tre anni dopo fu la volta di un’altra vecchia gloria delle comiche hollywoodiane Buster Keaton ad approdare nel porto genovese.
Nelle sue “Memorie a rotta di collo”così annotava il comico, ormai sul viale del tramonto e stupito di essere stato invece riconosciuto:
«Ero sul ponte della nave e guardavo un gruppo di stivatori che lavoravano sul molo, otto metri più sotto. Uno di loro mi riconobbe, chiamò i suoi compagni e mi indicò. Subito tutto il gruppo smise di lavorare e cominciò a urlare: “Booster! Booster Keaton!”. Mi salutavano eccitati, e io li risalutai con la mano, stupito, perché dovevano essere passati più di quindici anni dall’uscita del mio ultimo film”.
Foto dei due comici in viaggio tra Sanremo e Genova, archivio Leoni
Fonte “Forse non tutti sanno che a Genova…” di Aldo Padovano.