Resta in piedi, seppur rimaneggiato, il campanile mentre dei preziosi affreschi di Valerio Castello e di Domenico Piola, purtroppo non vi è più traccia.
Ma la vera curiosità sta nell’archivolto medievale individuato dagli storici come la base di una delle due vere torri Embriaci, da non confondersi con la torre De Castro, presenti nelle più antiche raffigurazioni del primitivo castrum cittadino.
La Grande Bellezza…
In copertina: l’archivolto di Santa Maria in Passione. Foto di Stefano Eloggi.
Al civ. n. 17 di Piazza San Matteo si trova il palazzo donato nel 1528 dalla Repubblica all’ammiraglio per i suoi servigi alla patria.
Ad Andrea D’Oriae ad i suoi eredi fu inoltre riconosciuta l’esenzione perpetua dalle tasse.
L’edificio originario che venne edificato da Lazzaro D’Oria attorno al 1460 ha subito nel corso dei secoli diversi rimaneggiamenti e cambiamenti fino a raggiungere, nella forma attuale, una riuscita fusione tra tardo gotico e primo rinascimento.
Il portale di scuola toscana attribuito a Nicolò da Corte e Gian Giacomo della Porta, secondo altri invece a Michele d’Aria e Giovanni Camplone, è un autentico capolavoro.
Figure zoomorfe e decorazioni a candelabri riempono ogni spazio possibile: testine, animali fantastici, lucertole, teste di montone e leone, pavoni, sirene e ninfe danzanti, uccelli che beccano dai fiori, roditori spuntano dalle cornucopie, pesci mostruosi e grifoni appollaiati sui capitelli.
A questi motivi se ne intrecciano altri floreali come girali e corone di fiori.
Nei sopracapitelli quadrati, a ricordare la fazione politica di appartenenza, due teste di imperatore.
Sopra l’architrave è scolpita l’epigrafe retta da due putti alati che certifica la donazione:
Senat. Cins Andre / Ae De Oria Patriae /Liberatori Mvnvs / Pvbblicvm.
Incisa sulla lapide l’immagine di una sfinge simbolo e sintesi dei quattro elementi che costituiscono il creato.
I fregi ornamentali originali sul prospetto principale sono opera dei maestri antelami Giovanni da Lancio e Matteo da Bissone.
La classica facciata in marmo bianco e nero alternato presenta in alto sulla sinistra due piccole logge una sopra l’altra chiuse da una terrazza decorata con archetti.
All’angolo della prima un pilastro marmoreo è scolpito con guerrieri del casato in nicchie con conchiglie sulle volte.
La seconda loggia invece aperta presenta arcate a tutto sesto, volte a crociera e fregi di archetti.
In realtà il celebre ammiraglio non visse mai in questa casa preferendo stabilirsi nella sua lussuosa dimora di Fassolo.
In copertina: la casa di Andrea D’Oria in San Matteo. Foto di Stefano Eloggi.
Il toponimo della zona delle Vigne rimanda a prima dell’anno Mille quando la contrada era identificata con il nome di Vigne del Re. Queste vigne, dette anche di Susilia, si estendevano inoltre su tutta la collina del Castelletto.
Anticamente il sito, per via della presenza di un cimitero paleocristiano, era ritenuto magico.
Gli undici archi a tutto sesto tamponati a sinistra nel muro perimetrale del chiostro, potrebbero essere i resti di tombe ad arcosolio del cimitero paleo cristiano, o più probabilmente, tracce di antichi magazzini. In origine la sede stradale era infatti ribassata rispetto a quella attuale.
Proprio per purificare la zona da queste leggende e superstizioni pagane nel 991 sarebbe stata eretta la basilica di S. Maria delle Vigne.
La Grande Bellezza…
In copertina: Scorcio di Vico del Campanile delle Vigne. Foto di Stefano Eloggi.
Situata nel cuore più antico della città vecchia piazza Embriaci costituisce emblematico esempio della piazza medievale concepita come fulcro intorno al quale ruotavano tutte le attività legate alla consorteria dominante: in origine case, logge, chiesa, pozzo, botteghe, magazzini e attività artigiane.
La schiatta del grande condottiero si estinguerà nei primi del ‘500 quando confluirà nell’albergo dei Giustiniani.
La dimora che si trova al civ. n. 5 è passata di mano nei secoli dagli Embriaci ai Cattaneo, ai Sale e infine ai Brignole a cui si deve la conformazione attuale.
Il portone a colonne doriche, adornato con due elmi e un cartiglio abraso è opera di Battista Orsolino.
Sul timpano spezzato una lapide ricorda che:
Intorno a questa Piazza Ebbero Stanza gli Embriaci / Casato Memorabile nelle Crociate e in Patria / Giganteggia Qvi a Tergo la Torre / Nella Sva Antica Struttura.
Varcato l’atrio con singolare volta a padiglione lunettato e salito l’elegante scalone con colonne marmoree si accede al piano nobile decorato con preziosi affreschi seicenteschi di Andrea Ansaldo.
Sempre nella piazza un palazzo senza numero civico appartenuto nel ‘400 ai Cattaneo Mallone presenta tracce di affreschi del XV e XVI sec. di scuola lombarda. Nel ‘600 la magione è stata completamente stravolta con la chiusura delle logge sostituite da finestre.
Al civ. n. 4 è visibile la celebre edicola del Beato Maggi, mentre al civicio 3 angolo con civ. 4 di vico Pece si notano i resti, robusti pilastri angolari, due archi ogivali in pietra, una colonna di marmo con capitello corinzio, di un edificio del XII sec.
In direzione via Mascherona si possono inoltre ammirare le mampae, ovvero quel geniale accorgimento adottato dai genovesi che permetteva loro di intercettare quel poco di luce che filtrava nei caruggi per convogliarla all’interno delle abitazioni.
In copertina: Piazza Embriaci. Foto di Stefano Eloggi.
Se mi dovessero mettere davanti all’ingiusta – e per me dolorosa -scelta di individuare solo ed una sola chiesa da mostrare ad un ipotetico visitatore non avrei dubbi e senza esitazione alcuna proporrei Santa Maria di Castello.
Nessuna chiesa genovese infatti può vantare, cattedrale di San Lorenzo a parte, un patrimonio storico, artistico, architettonico e culturale di tale importanza e prestigio. Cito in ordine sparso: antichi reliquiari, raffinati codici miniati, storici paramenti liturgici, il Cristo Moro, il portale maggiore del Riccomanni, la tomba di Jacopo da Varagine, il mausoleo di Demetrio Canevari di Tommaso Orsolino, la lastra tombale dei Grimaldi Oliva, innumerevoli annunciazioni fra le quali quella celeberrima di Giusto da Ravensburg, la pala di Ognissanti di Ludovico Brea, il trittico del Mazone, l’Immacolata di Anton Maria Maragliano, l’altare di Anton Domenico Parodi, le Sure del Corano incise in una piastrella sulla volta, quadri – qua e là – del Boccaccino, Pier Francesco Sacchi, Aurelio Lomi, Luciano Borzone, Bernardo Castello, Andrea Ansaldo, G. Battista Paggi, Andrea Semino, Giovanni Battista Carlone, Domenico Piola, Gregorio de Ferrari, il Grechetto, sculture di Pasquale Navone, Taddeo Carlone, Giovanni Gagini, tre chiostri, il giardino, il museo, le bandiere turche di Lepanto e mi scuso per tutto ciò che ho dimenticato o tralasciato.
Tutte queste meraviglie racchiuse in un prezioso scrigno di ineguagliabile bellezza.
Consiglio a tutti di investire una mattinata accompagnati dagli appassionati e competenti volontari che la tengono in vita, alla scoperta, in una dimensione senza tempo, degli splendori della ex cattedrale.
Nella parte bassa del quartiere di Oregina si trova, in via Almeria, la chiesa intitolata ai SS. Tommasoapostolo e Leone.
Il novecentesco edificio religioso riprende il titolo parrocchiale dell’antica chiesa intitolata all’apostolo Tommaso che sorgeva alla foce dell’omonimo rivo, dov’è ora piazza Principe, demolita nel 1885 a seguito dell’ampliamento del porto e l’aperturta delle nuove strade a mare.
All’interno sono conservate alcune opere d’arte provenienti dall’antica chiesa di S. Tommaso: una statua cinquecentesca di Santa Limbania, un gruppo marmoreo raffigurante Cristo e San Tommaso, di Guglielmo Della Porta (1515-1577) e un’urna cineraria di fattura romana.
Le statue di Guglielmo, celebre scultore della schiatta dei Della Porta la cui maestria è testimoniata sia nella cattedrale di San Lorenzo che a Palazzo del Principe, offrono spunto per narrare la storia di Santa Limbania una giovinetta nata nel 1188, o forse nel 1194, figlia di un mercante genovese a Cipro.
A 12 anni la bella fanciulla venne promessa sposa dai genitori ad un giovane del luogo. Limbania non ne voleva sapere anzi, rivendicando a gran voce la propria aspirazione religiosa, manifestava la volontà di rinchiudersi in un monastero lontano dall’isola.
Così con la complicità della sua nutrice con la quale si era confidata e con l’aiuto del di lei marito organizzò la fuga.
Limbania si era infatti accordata per salire su una galea diretta a Genova. Il capitano della nave però non rispettò i patti e non si presentò nel luogo stabilito per l’imbarco.
Secondo la tradizione il vascello rimase quindi in balia delle onde finché il comandante spaventato non tornò indietro a prendere la fanciulla davanti al boschetto convenuto. Qui la trovò, fra la sorpresa generale, circondata da alcune bestie feroci miracolosamente ammansite.
Quando l’imbarcazione giunta finalmente a destinazione stava per attraccare al molo venne spinta da una forza misteriosa a occidente contro la scogliera sulla quale si stagliava proprio la chiesa di San Tommaso.
La santa, risvegliatasi dell’estasi, chiese ai marinai del terrorizzato equipaggio il nome del monastero e vi si fece accompagnare dichiarando di voler tracorrere il resto del tempo che le sarebbe stato concesso con le monache di quel convento.
E così fu, forse per adempiere ad un voto fatto durante la tempesta, di salvare la nave che stava sfracellandosi contro la scogliera, Limbania dimorò in rigorosa penitenza e clausura nella cripta della chiesa di San Tommaso fino alla fine dei suoi giorni, pare, dopo la metà del XIII sec.
Trascorso qualche anno dalla sua morte le consorelle del convento decisero di staccare la testa dal corpo di Limbania per poterla esporre in particolari occasioni come reliquia di culto.
Nel giorno della Pentecoste del 1294 avvenne, secondo la tradizione, il miracolo più celebre: durante la funzione un esitante e perplesso sacerdote prese la testa fra le mani per esporla al rituale bacio dei fedeli.
Il religioso, poiché la chiesa in merito alla presunta santità della suora non si era ancora pronunciata, non aveva poi tutti i torti ad essere scettico.
A quel punto, a fugare ogni dubbio, la testa di Limbania si staccò dalle mani del prete e volò, fra l’incredulità dei presenti sino all’altare.
Si tramanda inoltre un altro prodigio secondo il quale una donna era andata pregare la santa implorandola di salvare il figlio gravemente malato. Limbania apparve in sogno alla povera madre dicendo che il giovane avrebbe dovuto bere il vino in cui era stata lavata la sua testa. Così venne eseguito e guarigione fu. Era il 16 giugno, e da allora in quel giorno, per secoli, venne distribuito “il vino di S. Limbania”.
Le sue reliquie oggi, dopo la demolizione del monastero di San Tommaso, riposano in una chiesetta a lei dedicata a Voltri.
Santa Limbania è la protettrice degli emigranti, dei facchini, dei mulattieri e più vin generale dei marinai del porto di Genova.
A lei, oltre alla chiesa sopra citata, è dedicato un molo e il percorso che da Voltri saliva verso le alture e gli appennini verso il Piemonte utilizzato nel Medioevo per transitare le merci nella grande pianura.
In copertina: Statua di Santa Limbania. Foto di Gabriele Gira.
In Via Carcassi proprio sotto il muro del parco dell’Acquasola si trova una grande e dimenticata fontana battezzata nei racconti popolari, come “fontana della sfortuna”. Pare che a chi avesse osato bere da tale sorgente sarebbero piovute addosso disgrazie a non finire.
Tale sciocca superstizione era dovuta al fatto che già nel ‘500 nella zona erano state scavate delle enormi fosse per gettarvi i cadaveri della peste e nel ‘600 sulla sovrastante ampia spianata vi si seppellivano i poveri.
Perciò nonostante la fontana fosse allacciata all’acquedotto cittadino, nessuno se ne serviva.
In Val Nervia nel comune di Ventimiglia è sita una preziosa area archeologica che testimonia la cultura degli antichi liguri, in particolare della tribù degli intemeli una comunità vissuta in epoca romana.
Costoro infatti nei primi secoli avanti Cristo fondarono la città di Albintimilium.
Oggi il sito di notevole interesse storico offre una passeggiata a cielo aperto fra le rovine del millenario abitato, delle terme e del teatro.
Ma è all’interno dei locali del museo che si scoprono alcune sorprendenti curiosità.
Oltre infatti a busti di statue, vasellami vari, a gioielli e preziosi monili si possono ammirare i tavolieri, con relative pedine, del misterioso (soprattutto per le successive simbologie medievali) gioco del filetto (le cui tracce sono visibili anche sugli scalini della cattedrale di San Lorenzo a Genova) e un incredibile oggetto, stupefacente per la sua modernità.
Si tratta di un utensile multi uso in metallo risalente ai primi due secoli dopo Cristo in cui si distinguono chiaramente, fra le altre, una forchetta, un cucchiaio ed un coltello.
Insomma gli ingegnosi abitanti della riva destra del torrente Nervia avevano realizzato circa 1700 anni prima di Karl Elsener, il prototipo del celeberrimo coltellino svizzero.
Gente pragmatica questa dei Liguri.
In copertina “il coltellino svizzero”. Immagine tratta da Gedi Visual.
A palazzo del Principe sono collocati tre straordinari cicli di arazzi quattro e cinquecenteschi: il primo dedicato alle storie di Alessandro Magno, il secondo ai mesi dell’anno, o meglio, alle divinità ad essi associate, il terzo alla battaglia di Lepanto.
Quest’ultimo ciclo è costituito da sei panni e due tramezzi conservati nella sala del Naufragio del palazzo.
Gli arazzi furono commissionati da Giovanni I Andrea D’Oria, nipote di Andrea, che fu tra i protagonisti del celebre scontro navale.
Ad elaborare i bozzetti preparatori venneri incaricati addirittura Lazzaro Calvi che disegnò le scene centrali e Luca Cambiaso che si occupò delle incorniciature e delle figure allegoriche.
La stesura degli arazzi avvenne a Bruxelles e furono consegnati a Genova nel 1591.
La sequenza degli episodi rappresentati ha inizio con La partenza da Messina della flotta cristiana, nel quale si descrive la partenza delle navi cristiane dal porto siciliano, sotto il comando supremo di Don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo V.
In basso a sinistra è rappresentata la “Capitana Nova” di Giovanni Andrea I, riconoscibile grazie alla presenza a poppa del fanale a forma di globo celeste, dono della moglie Zenobia.
A sinistra della scena centrale compare l’allegoria della Concordia, caratterizzata dagli attributi iconografici del caduceo e della lira, a destra si scorge invece la Nemesi, identificata dalla presenza di un metro e del freno che le viene offerto da un fanciullo.
Il secondo arazzo illustra la Navigazione lungo le coste calabre, mostrando l’avanzamento della flotta cristiana alla ricerca dello scontro con le navi turche. Il panno immortala il momento in cui la flotta della Sacra Lega costeggiò le coste della Calabria in direzione di Corfù, isola al largo dell’Epiro, caposaldo veneziano. Da lì giunsero poi a Lepanto, nei pressi delle isole Curzolari, anticamente conosciute come Echinadi, dove ebbe luogo lo scontro con l’armata turca. Le figure allegoriche che accompagnano l’episodio sono la Vigilanza, a sinistra, con gli attributi del gallo, della testa di leone e della gru e, sul lato opposto, il Dominio sul mare, caratterizzata da una folta chioma agitata dal vento e dal tridente di Nettuno.
Il terzo panno raffigura lo Schieramento delle flotte. A destra si vede l’armata turca, organizzata in una formazione continua, pensata con l’intento di aggirare le navi nemiche. I cristiani, a sinistra, si divisero invece in quattro corni: al centro si posizionarono le galee di Don Giovanni d’Austria, a sinistra quelle veneziane di Agostino Barbarigo e a destra quelle di Giovanni Andrea I Doria. In seconda fila si scorgono le navi della retroguardia, al comando di Alvaro Bazan. Tra i due schieramenti si vedono le galeazze veneziane, navi dotate di una ragguardevole potenza di fuoco, che si rivelarono decisive per le sorti della battaglia. Le allegorie della Speranza e della Prudenza affiancano la scena centrale, la prima caratterizzata da un giglio e la seconda da tre teste di animali (lupo, leone e cane).
L’arazzo dedicato alla Battaglia vera e propria reca la rappresentazione dello scontro, che si rivelò estremamente sanguinoso. La vittoria della Lega Santa, in una battaglia le cui sorti rimasero a lungo in bilico, fu conquistata grazie alla superiore potenza di fuoco della flotta cristiana. Il panno mostra ai lati della scena centrale la figura della Fortuna, rappresentata in equilibrio su una sfera e accompagnata dall’emblema della cornucopia, e della Fortezza, caratterizzata dalla presenza di uno scheletro, di una corona e di un ramo di quercia.
Il penultimo panno è dedicato alla Vittoria cristiana e la fuga dellesette galee turche. Favorite dal sopraggiungere della notte, sette navi turche, comandate dal corsaro Uluç Alì, riuscirono a sfuggire alla cattura. Giovanni Andrea I, la cui nave si scorge impegnata nel vano sforzo dell’inseguimento, fu aspramente criticato per la sua scelta di interrompere lo schieramento cristiano nel tentativo di realizzare una manovra di aggiramento dei turchi. L’arazzo presenta diversi elementi di trionfo sul nemico, rappresentato in catene nella porzione inferiore del panno.
L’ultimo arazzo della serie raffigura il Ritorno a Corfù. La flotta cristiana, vittoriosa, trainò nel porto veneziano circa centotrenta navi turche prese prigioniere durante la battaglia. In primo piano è rappresentata la Capitana Nova di Giovanni Andrea con una preziosa preda di guerra: la nave ammiraglia turca. A corredo della scena vi sono la Gloria, caratterizzata dalla presenza di un cigno, e la Fama, con i suoi attributi della tromba, della lancia e le ali tempestate di occhi, orecchie e lingue.
Dopo questa dettagliata ed erudita descrizione tratta pari pari (sarebbe stato presuntuoso togliere o aggiungere altro) dal sito doriapamphilj.it, riporto questa divertente storiella citata sulla relativa monografia del Prof. Barbero che la dice lunga sull’essenziale pragmatismo dei genovesi:
“… l’ammiraglio veneziano scrisse alla Serenissima “La Madrepatria è salva”; l’ammiraglio pontificio scrisse al papa “La vera fede ha trionfato”; l’ammiraglio spagnolo scrisse al re Felipe “Vostra maestà ora domina anche il Mediterraneo”; Gio Andrea Doria scrisse al suo amministratore “Smetti di pagare l’assicurazione per i carichi perché sul mare non c’è più pericolo”.
In copertina il primo arazzo che immortala la partenza della flotta da Messina.
Giovanni Andrea I D’Oria parente (cugino di terzo grado) del più celebre Andrea resterà nella storia sia come ammiraglio, avendo ereditato il comando delle galee spagnole a Genova e successivamente il titolo di Capitano generale del Mare della corona di Spagna nel Mediterraneo, per aver partecipato con discusse fortune alla battaglia di Lepanto, sia come mecenate per aver impreziosito la sontuosa dimora del Principe.
Non tutti sanno però che, oltre ad aver incrementato in maniera esponenziale la fortuna ereditata dell’illustre avo fino a diventare il privato cittadino più ricco d’Europa, fu l’audace e irriverente imprenditore che volle una nave bordello ancorata in Darsena.
Da alcuni decenni infatti il frequentato quartiere a luci rosse sotto il Castelletto era stato demolito, proprio al tempo e su iniziativa di Andrea, per far posto a metà ‘500 alla monumentale Strada Nuova detta anche Via Aurea.
Inoltre le prostitute come ricordato dal detto popolare “a l’è cheita na bagascia in maa sensa bagnase” non potevano né avvicinarsi ai moli, né di conseguenza salire a bordo delle navi.
Ma “se Maometto non va alla montagna- come recita un altro abusato proverbio- la montagna va da Maometto” e fu così che Giovanni I Andrea D’Oria ebbe la brillante idea di acquistare una galea battente bandiera spagnola, di ormeggiarla nella darsena e di allestire al suo interno un lussuoso bordello.
Con questo arguto stratagemma la nave risultava quindi essere fuori dalla giurisdizione della Repubblica e di conseguenza esonerata dalla tassazione e dalle regole in vigore sulla terraferma.
L’attività, nonostante i numerosi contenziosi nel tentativo di bloccarla, prosperò per oltre un secolo fino a quando nel 1716 il doge Lorenzo Centurione, per porre fine alla scandalosa situazione acquistò dagli eredi, pagandola una cifra folle, la nave.