Storia del Cimitero di Murta e del suo roseto

Il roseto all’interno del cimitero di Murta costituisce la principale attrazione del percorso della via delle Rose che si snoda tra Trasta e Murta.

Tale passeggiata che parte dal nuovo ponte sul Rio Ciliegio a Trasta, edificato dal Comune di Genova nel 2022 dopo il crollo del precedente piccolo secentesco ponte, può essere anche una valida e piacevole alternativa per raggiungere la Festa della Zucca a Murta.

Lungo il sentiero che si arrampica lungo la collina si possono ammirare delle piccole collezioni di rose e diverse specie arboricole evidenziate da appositi cartelli esplicativi.

Rose.

Altre rose.

Con il suo simbolismo di gusto ottocentesco, il cimitero di Murta può essere considerato a tutti gli effetti un cimitero monumentale. Edificato nel 1835 per ottemperare alle nuove disposizioni del Regno di Sardegna in merito alle sepolture, rimase in attività fino agli anni ’90 quando fu ufficialmente radiato.

La maggior parte delle sepolture, ancora in discreto stato di conservazione, nonostante l’abbandono e il vandalismo, risalgono alla fine del 1800 e ai primi anni ’30 del 1900. Il tema floreale delle decorazioni è evidente nelle incisioni e nei bassorilievi presenti su molte lapidi.

Ancora rose.
Sempre rose.

Tra gli elementi che caratterizzano il cimitero troviamo i lumini in stile Liberty, in ferro con vetrino rosso e le sepolture a forma di piramide a gradoni. Molto interessanti le ringhiere e le catene in ferro battuto che circondano alcune delle sepolture più ricche. I muri perimetrali, in parte ancora originali, mostrano le tracce delle prime sepolture: croci e cornici che si intravedono sotto le tombe più recenti.

Interno del cimitero.

Due statue, in parte rovinate dal tempo, sono tra gli elementi di maggiore pregio con la croce centrale.

Tra le sepolture è presente quella di Maria Massuccone Mazzini, parente di Giuseppe, da cui il titolo alla via principale di Murta. L’ossario, situato sul lato opposto all’ingresso, è in stato di degrado, come la cappella mortuaria, ormai perduta.

Qui si trovano anche le tombe della famiglia Crosa, originaria di Trasta, avi della mia consorte.

Il Portale, restaurato recentemente, è di gusto neoclassico: ai lati del frontone due urne che simboleggiano il corpo inteso come contenitore dell’anima.

Il cimitero è stato dichiarato luogo di interesse culturale dalla Soprintendenza per i Beni Storici e Paesaggistici della Liguria il 9 aprile 2013.

Sullo sfondo il campanile della chiesa di San Martino di Murta.

Interno del cimitero. La tomba di Massuccone è quella costruzione bianca a centro sullo sfondo.

Ahi! sugli estinti | non sorge fiore, ove non sia d’umane | lodi onorato e d’amoroso pianto. (88-90). Cit. da I Sepolcri di Ugo Foscolo.

Spiegazione della tipologia di rose presenti nel roseto.

Tutte le foto sono dell’autore.

In Copertina: il tratto terminale della salita prima di arrivare a Murta. Foto di Antonio Corrado.

Genova Novembre 2023

La Scalinata delle Tre Caravelle.

La realizzazione della scalinata monumentale rientra nell’ampio progetto di urbanizzazione che coinvolse l’intera area adiacente al torrente Bisagno e al quartiere della Foce, tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Progettata e costruita tra il 1922 e il 1938 dall’architetto e urbanista Alfredo Fineschi, con la collaborazione del padre Pietro, l’opera si inserisce in un contesto di ammodernamento della città.

I due architetti operarono ampiamente a Genova, realizzando, tra l’altro, anche l’attiguo palazzo razionalista che oggi ospita la questura.

Qui sorgeva il raccordo tra le antiche mura cittadine, conosciute rispettivamente come Mura Vecchie Mura Nuove.

Questo tratto si sviluppava con una serie di terrazze orizzontali, collegando il cinquecentesco bastione delle Cappuccine alle seicentesche Fronti Basse.

Queste ultime furono spianate nel 1892, e circa trent’anni dopo la zona venne risistemata nell’assetto che ancora oggi ammiriamo.

Nel 2010 la zona è stata oggetto di un intervento di riqualificazione.

La scalinata, di ampie dimensioni, è composta da due ariose rampe separate da un’aiuola inclinata su più livelli e coltivata a prato inglese. L’aiuola è suddivisa verticalmente in tre sezioni, precedute da una quarta decorata con àncore stilizzate. In ciascuna delle tre sezioni spicca un motivo che richiama simbolicamente le tre caravelle utilizzate da Cristoforo Colombo nella sua impresa della scoperta dell’America nel 1492. Le caravelle sono raffigurate attraverso decorazioni floreali all’interno delle aiuole stesse.

La scala monumentale si apre di fronte al maestoso Arco della Vittoria, un arco di trionfo dedicato ai caduti della prima guerra mondiale, che domina il centro della sottostante Piazza della Vittoria.

Le tre caravelle, perpendicolarei alla sottostante via intitolata ad Armando Diaz, si innalzano sul lato destro del Liceo Classico Andrea D’Oria e sul lato sinistro del palazzo della Questura.

Un ampio giardino si estende verso le mura delle Cappuccine, proseguendo fino a raggiungere la spianata di Carignano.

In Copertina: la scalinata delle tre caravelle. Foto di Sergio Pippi.

Il Presepe di pietra di Arenzano.

L’entroterra di Arenzano si trasforma così nella scenografia della Natività, con terrazze, ripari e rifugi ricostruiti fedelmente grazie alla tecnica, oggi padroneggiata da pochi, dei muretti a secco.

Un’opera realizzata da Benedetto Damonte, con il supporto di Ino Caviglia, Francesco Damonte e altri collaboratori: il presepe, esposto per la prima volta nel 2016 nella vetrina di una gastronomia, ha riscosso così tanto successo che negli anni si è ampliato, diventando un autentico patrimonio di Arenzano, ora esposto nella sede dello IAT sul lungomare.

Il Rifugio Scarpegin, il Riparo Beppillo, la Ca’ da Gava, la Torre dei Saraceni, Ai Belli Venti e molti altri luoghi della memoria nel “presepe di pietra” di Arenzano, diventano così familiari protagonisti.

In Copertina: Il Presepe di Pietra di Arenzano.

Torre del Labirinto

La Torre del Labirinto, ancora esistente sebbene in stato di degrado, rappresenta uno degli esempi meglio conservati di strutture simili.

Situata nel quartiere della Coscia, è nascosta tra gli edifici compresi tra via Pietro Chiesa e piazza Barabino, da cui è parzialmente visibile.

Il nome curioso della torre, una delle diciotto presenti in zona in epoca medievale, deriva dal complesso intreccio di vicoli che la circondano.

Questo “labirinto urbanistico” è testimoniato dal toponimo, che richiama il disordine e la caotica disposizione delle strade di questo antico rione, come descritto da Giuseppe Revere nel 1858.

Egli lo definiva un “acervo di strade” dove persino i marinai, scampati alle tempeste del mare, finivano per perdersi, talvolta abbandonando il “timone” sotto l’influenza delle lusinghe di alcune donne locali, con conseguenze non sempre favorevoli per la loro “nave”.

La Torre del Labirinto. Foto di Stefano Ghiglione.

Questo quartiere ha una storia densa di eventi significativi, tra cui l’assalto dell’accampamento francese del generale Massena da parte degli abitanti della Coscia nel 1800, durante il blocco navale di Genova.

Questo atto di ribellione, motivato dalla fame causata dall’assedio, fu un tentativo riuscito di procurarsi viveri.

La Torre del Labirinto, una delle poche strutture sopravvissute di quell’epoca, è accessibile da via Pietro Chiesa, oltrepassando un archivolto chiuso da un cancello.

Nonostante sia celata tra le case, è ancora visibile da Piazza Barabino.

In Copertina: Torre del Labirinto. Foto di Stefano Ghiglione.

Il misterioso e dimenticato meali!

A Genova ancora per quelli della mia generazione nati inizio anni ’70 la parola meali aveva un significato ben preciso.

Non c’era infatti campetto, oratorio, sagrato, giardinetto o piazzetta dove durante la partita con questo termine venisse identificata la rimessa dal fondo.

Erano gli anni in cui al portiere non era richiesto il saper giocare coi piedi. Per fare bene il suo mestiere, ovvero quello di parare, bastava che sapesse usare con bravura le mani.

A quel tempo dunque la ripresa del gioco dal fondo avveniva con un lancio lungo del pallone che, prima di essere toccato da un compagno, doveva in ogni caso uscire dall’area di rigore.

Così molto spesso ad effettuare tale rinvio non era il portiere, bensì il libero o comunque il giocatore di movimento dotato del calcio più lungo.

Oggi invece è in voga -uso il termine tecnico- la “costruzione dal basso” che prevede l’avvio dell’azione proprio da parte del portiere che passa la palla (che non deve più necessariamente prima di essere toccata da un compagno uscire dall’area grande) ad uno dei due terzini posti ai vertici di quella piccola.

Eppure al di fuori dei confini provinciali la parola meali è sconosciuta. Semplicemente non esiste se non tramandata dalla tradizione orale delle cronache delle partite degli albori. Persino l’Accademia della Crusca interpellata a suo tempo sulla questione della sua genesi non ha saputo fornire una spiegazione definitiva.

Secondo alcuni infatti l’etimo della parola meali deriverebbe da una maccheronica onomatopeica traduzione dall’inglese della domanda rivolta all’arbitro “May I?” (posso battere?) oppure dalla storpiatura di “My line” (batto dalla mia linea) et “similia”.

Secondo altri l’origine sarebbe invece riconducibile all’espressione dialettale “Mèa li! (Guarda lì) per indicare dove mettere la palla per battere il rinvio dal fondo.

Facendo ricerche in rete sull’argomento mi sono imbattuto anche nelle suggestive quanto fantasiose ipotesi formulate dal sito Pagina2Cento secondo il quale la parola meali vanterebbe addirittura origini greche. In proposito riporti pari pari:

“… Un amico tifoso dell’Aris Salonicco ha suggerito che “me allì” in greco significa “con l’altra” (femminile). Starebbe per “gioca dal fondo con l’altra palla”: un cambio di attrezzo, insomma, come oggi i portieri fanno spesso. Ma all’epoca dei pionieri? Difficile.

Un altro amico, stavolta tifoso del Paok Salonicco, l’ha presa più sul filosofico: “se ci pensi, calcio d’angolo o rimessa dal fondo dipendono sempre da una decisione dell’arbitro, nonostante i giocatori pretendano sempre di aver ragione. Tutti sostengono di dire la verità al direttore di gara. E quando il fischietto decide, eccoci in presenza di un giudizio preso “me alithia”, che in greco vuol dire con verità. Per il corner era già popolare la parola inglese, ma goal kick no. Meali vuol dire che l’arbitro ha deciso per la rimessa dal fondo e che il suo giudizio è la verità di cui prendere atto”.

Meali deriverebbe da “Me alithia” in forma contratta? Mah… forse. Nessuno degli altri al tavolo aveva una spiegazione migliore. Tutti concordavano però su una cosa: meali aveva sicuramente un’origine ellenica, come (secondo i greci) il 99,99% delle parole nel mondo occidentale.

Avevo solo un ultimo quesito per loro: d’accordo l’origine greca, ma come si spiegherebbe l’uso di meali solo a Genova e nelle sue immediate vicinanze? Con questa domanda, ero sicuro di averli messi nel sacco. Mi hanno risposto in coro: “Semplice. Siete una città di mare e chi domina il mare, dai tempi dell’Iliade, sono i marinai greci. Saremo venuti a giocare da voi e vi avremo insegnato la parola meali”.
Parola che poi, in Grecia, non hanno mai utilizzato”.

Greci o non greci sicuramente il football in Italia, proprio per via degli scambi marittimi con gli inglesi, è nato proprio a Genova nel 1893 con la fondazione del Genoa CFC e quindi è plausibile che la parola meali sia frutto di questa contaminazione inizialmente onomatopeica poi assorbita nella lingua genovese.

Meali! Ovvero “Compagni guardate” avvertimento rivolto dal battitore ai giocatori sulle ali che sta per rilanciare in loro direzione.

Qualunque sia l’origine della parola di cui nella lingua italiana non si ha traccia, per me che da ragazzino facevo il portiere, il rinvio dal fondo, che sia io o il libero a calciare, sarà sempre il meali!

In Copertina: Meali battuto dal portiere durante una partita di campionato inglese di inizio secolo. Immagine tratta da Ulimouomo.com.

Il Provinciale “Genova è una canzone”.

Ieri sera su Rai Tre è andata in onda la puntata condotta da Federico Quaranta del “Provinciale il racconto dei racconti”.

La puntata dal titolo “Genova è una canzone” ha avuto appunto come tema principale il rapporto di Genova con la musica.

Ancora una volta il giornalista genovese ha colto nel segno fornendo un racconto appassionato e coinvolgente della sua città.

Le meravigliose immagini riprese dei droni hanno saputo accompagnare in modo emozionante la narrazione che ha preso a spunto la canzone d’autore per descrivere una Genova più autentica e fuori dai soliti luoghi e percorsi comuni.

Vero De André, come al solito è stato protagonista principale, ma anche Bindi, Tenco, Paoli e Lauzi hanno avuto tuttavia un loro spazio adeguato.

Grazie al contributo di Morgan e delle testimonianze degli altri artisti che hanno vissuto quel periodo cosi fecondo si è sfatato il mito dell’esistenza della Scuola Genovese.

Si è trattato dunque di un periodo di particolare fermento artistico che ha favorito lo sbocciare quasi simultaneo di tante singole irripetibili personalità, sviluppatesi in totale autonomia agevolate, questo si, dalla comune frequentazione con i fratelli Reverberi.

Federico Quaranta con Genova sullo sfondo ripresa dai monti alle sue spalle.

Ma Genova non è solo l’espressione dei suoi cantautori o il sarcasmo dei suoi comici.

Genova è anche la variegata umanità dei suoi caruggi, l’inarrivabile opulenza dei suoi palazzi, l’orgoglio della sua gloriosa storia millenaria, il coraggio dei suoi naviganti, la forza dei suoi camalli, l’intraprendenza dei suoi marinai e la laboriosità del suo porto.

Genova è schiva come il carattere dei suoi abitanti e Superba non nel senso di altezzosa, bensì in quello teorizzato da Caproni di rivolta verso l’alto con le case arroccate le une sulle altre, aggrappate sugli scogli in perenne tensione tra la montagna e il mare.

Perché Genova che del mare è Regina ha in quell’azzurro infinito orizzonte il respiro, nei forti sui monti che la cingono corona e nella sentinella della Lanterna, lo scettro.

E tutto questo, a differenza di Augias, Colò e Angela figlio, Federico Quaranta oltre a saperlo bene è riuscito anche a trasmetterlo con la passione dell’innamorato.

In Copertina: tramonto genovese.

Il Presepio genovese

La tradizione presepiale a Genova vanta una storia antichissima.

Della rappresentazione della Natività di Gesù Cristo infatti si ha notizia in città a partire dal XVII secolo quando in Santa Maria di Castello era già era attiva una Compagnia del Santo Presepio.

Si sa anche che al maestro intagliatore Matteo Castellino di suddetta Confraternita vennero commissionate diverse figure lignee destinate alla chiesa di San Giorgio.

A partire dunque dal XVII secolo a Genova è tutto un fiorire di botteghe di artisti del legno.

Sbocciano così i grandi maestri della scuola genovese quali, in ordine sparso, Bissone, Navone, Maragliano, Casanova, Storace, Ciurlo, Pittaluga, Pedevilla e tanti altri scultori che ne hanno così, con il loro talento, nobilitato la storia.

Oltre all’ambientazione legata al territorio il presepe o presepio genovese, per lo meno nella sua versione più antica, è caratterizzato dalla rappresentazione dei Magi a cavallo e non sui cammelli, dalla presenza del personaggio del mendicante e da quella del pastorello vestito di jeans.

La differenza sostanziale ad esempio tra le statuine genovesi e quelle partenopee consta nei materiali usati per animare i diversi personaggi, le genovesi avevano il corpo, la testa e le membra in legno intagliato e scolpito mentre le napoletane avevano il corpo in canapa  con le mani, i piedi e le teste in terracotta dipinta.

Per chi fosse interessato qui sul sito potrete trovare nella sezione racconti la descrizione di alcuni dei principali presepi cittadini.

«Il presepio è il trionfo dei genovesi»

Cit. Henry Haubert (1877-1940),” Città e genti d’Italia“. Sociologo francese.

In Copertina: Una delle scene del Presepe della Madonnetta forse il più famoso e affascinante presepe genovese. Foto di Stefano Eloggi.

Trallalero de l’erbo (l’albero di Natale genovese).

A Genova il Natale ha sempre avuto la sua massima espressione nella tradizione presepiale frutto, a partire dal XVII secolo, della maestria di grandi artisti quali Bissone, Navone, Maragliano, Casanova, Storace, Ciurlo, Pittaluga e Pedevilla e tanti altri che ne hanno nobilitato la produzione.

Ma nella Superba si addobbava anche l’albero, non un abete ad imitazione dei paesi del Nord Europa, bensì una più comune e mediterranea pianta di alloro per noi, come testimoniato dalla cerimonia del Confeugo, simbolo di prosperità.

Ne fa menzione un antico trallalero (canto popolare ligure) intitolato “Trallalero de l’erbo” in cui si racconta come l’albero genovese venisse addobbato con i natalin, detti anche mostaccioli o maccaroin (maccheroni in genovese), con i fichi, le arance, i mandarini e tanta frutta secca, il tutto legato ai rami con dei nastrini bianco rossi (I colori di San Giorgio e della città).

Ecco il testo della simpatica filastrocca che si dovrebbe tornare a proporre, al fine di tramandare la tradizione, nelle scuole dell’infanzia e primarie.

Trallalero là là, trallalero là là.

Trallalero là là, trallalero là là

Pe fâ un’erbo a dovéi

voéi savi cöse ghe veu?

Ghe veu tanti maccaroin

Quelli lunghi, quelli fin.

Poi se ligan cö spaghetto

gianco e rosso, pe caitae,

perché questi son i colori.

I colori da çittae.

Trallalero là là, trallalero là là…

Pe fà l’èrbo ancon ciù bello

Gh’ppendemmo i mandarin, 

I çetroin, e fighe, e noxe,

I candì e i torroni.

Oua l’èrbo o l’è jaeto

Poi veddilo anche vôi

sciù ciocchaeghe un bell’applauso

Meglio ancon se na fake duì

Trallalero là là, trallalero là là…

Traduzione

Per fare un bell’albero

Sapete cosa occorre?

Occorrono tanti maccheroni

Quelli lunghi sottili.

Poi si legano col nastrino

Bianco e rosso, mi raccomando!

Perché questi sono i colori, i colori della città

Per fare l’albero ancora più bello

Vi appendiamo i mandarini

Le arance, i fichi, le noci

I canditi e i torroncini

Adesso l’albero è fatto

Potete vederlo anche voi

Sù, fategli un bell’applauso

Ancora meglio se ne fate due.

Allego qui la moderna rivisitazione del brano “O Trallalero de l’erbo:.Versciòn cantâ da quelli “Da-i bricchi a-o mâ” e da Mike FC. Aogûri!

https://fb.watch/p1z_y8-GZx/

In Copertina: L’albero di Natale genovese allestito accanto allo scalone nel cortile di Palazzo Tursi (Comune di Genova), a cura della compagnia dei bambini della Scuola Di Negro Chiabrera e Scuola Padovano de Scalzi. Natale 2022.

Il Presepe nel bosco incantato

Viganego è un piccolo borgo della Val Lentro che nel territorio di Bargagli risale i monti lungo una strada che si stacca dalla statale 45.

Qui grazie allo straordinario impegno di un gruppo di volontari della locale Confraternita di San Bartolomeo è possibile godere delle meraviglie dello spettacolare presepe allestito nel bosco.

Il suo ideatore fu Mino Tondo che, circa 16 anni fa, con l’aiuto di alcuni amici lo realizzò con strutture in pietra proprio nello spazio verde attiguo all’oratorio di San Bartolomeo e alla chiesa di San Siro.

Tipico casolare con fienile e legnaia.
Sbirciando da una finestra una vecchina è intenta a cucire.
Scene di vita quotidiana.
La Locanda
L’Osteria.

Così lungo il percorso si dipanano le varie scene: pescatori sui colorati gozzi intenti a raccogliere le reti in un placido lago sovrastato sa un ponte ad arco sopra la cascata; sotto un’altra cascata ecco la ruota di un mulino attivarsi per macinare grano, granoturco e castagne; non può poi mancare il frantoio con i contadini che vi portano ceste colme di olive. Le immagini, più di ogni altro commento, parlano da sole,

Il borgo di pescatori sul lago.
Il Frantoio.
Botteghe di artigiani.
I Re Magi attraversano il ponte.
La Natività.

Case, fienili, fontane, stalle, locanda, botteghe e laboratori artigiani, pascoli e paesaggi rocciosi sono magistralmente riprodotti in un naturale connubio tra pietra e legno.

Come nel caso dello scenografico ponte che attraversa le rocce sopra l’acqua che scende da una cascata e conduce i tre Re Magi verso la capanna della Natività, al di là di un pascolo di greggi.
Il presepe è stato aperto al pubblico per la prima volta sedici anni fa, ma oggi l’ideatore e costruttore di questo affascinante e originale scenario non c’è più, scomparso nel 2009. Si chiamava Cosimo, per tutti Mino, Tondo appassionato cultore della storia dei presepi e geniale artefice di tutte le costruzioni in pietra di quello di Viganego.

Accanto alle sue magnifiche casette avrebbe voluto realizzare anche un campanile, ovviamente in pietra, per le antiche campane di San Siro perché la chiesa parrocchiale ricostruita non ha campanile. Mino Tondo purtroppo non ha fatto in tempo a mettere in pratica il suo ultimo sogno, però ha regalato al presepe un altro tocco di magica suggestione con l’affascinante castello merlato a tre torri, curatissimo in ogni dettaglio, compreso l’interno con la grande tavola pronta per il castellano e allietata dai musici.

La sala da pranzo del Castello
Dettaglio della tavola imbandita con i musici.

Le statuine invece, essendo di varia provenienza e di recente fattura, non hanno particolare rilevanza.

Insomma il Presepe di Viganego merita assolutamente una visita!

Testo liberamente interpretato dal testo di Roberto Gazzo della Confraternita di San Bartolomeo di Viganego.

Il Presepe di Pentema

Pentema è una frazione di Torriglia (Ge) nota per il suo pesto bianco e soprattutto per il suo celebre presepe.

Il borgo di Péntema che si trova alle falde del monte Antola, è un agglomerato di abitazioni fitte che si allungano sul declivio, dominate dalla grande chiesa, tra muretti a secco e strette viuzze di pietra, sulle quali affacciano i balconi coperti tipici dei paesi dell’entroterra.

In questo suggestivo scenario è stato allestito un presepe contadino che racconta momenti di vita quotidiana dei nostri antenati ricostruiti a grandezza naturale con grande cura e realismo.

Antichi mestieri.

Ed è così che le strade del paese si popolano di personaggi fedelmente riproposti anche nei volti degli abitanti di un tempo; i pastori, il falegname, l’ortolano, il fabbro, il cestaio, il barbiere, il ciabattino, il magnano (ovvero il ferramenta di un volta) diventano protagonisti del loro stesso passato.

Momenti di vita quotidiana e preparazione delle castagne.

I volti delle figure -racconta Don Cazzulo- sono stati infatti scolpiti da un artigiano del paese riprendendo i tratti dei compaesani del passato e, per allestire le 40 scene realizzate nel corso di 27 anni, occorrono due mesi di duro e appassionato lavoro.

A completare la narrazione del tempo che fu è presente un piccolo centro multimediale che, corredato di foto d’epoca e un filmato in DVD, racconta la storia di questa vallata.

Giocatori di carte all’osteria.
Seduti al tavolo da pranzo in cucina.
Il Calzolaio
Materassai.
Lavandaie ai troeuggi.
La scuola.

In Copertina: la Natività. Foto di Antonio Corrado.