La Galleria Dorata

Poco prima di morire Lorenzo De Ferrari realizzò nel palazzo Cataldi Carega, o Tobia Pallavicino dal nome del suo primo proprietario, sede oggi della Camera di Commercio di Genova, i suoi più apprezzati capolavori: la cappella adibita a custodire la Madonna Carrega del Puget e la galleria Dorata, ambienti entrambi noti per via della loro stupefacente opulenza.

Nella galleria, in particolare, non c’è un solo centimetro che non sia, con l’aiuto del collega Diego Francesco Carlone, sfarzosamenre decorato dal Maestro.

Tale spazio collocato a chiusura della struttura settecentesca del palazzo, rappresenta infatti lo stato dell’arte del Rococò genovese.

Fu interamente ideata da Lorenzo che impiegò un decennio fra il 1734 e il 1744 per dare forma al suo grandioso progetto di fondere insieme stucchi dorati, specchi ed affreschi, in una sublime commistione di arti e competenze diverse.

La galleria ultima sua opera prima di morire costituisce in un tripudio di vertiginosa bellezza l’eredità, la summa dell’artista.

L’intero ciclo decorativo è ispirato alle storie di Enea; nel medaglione centrale della volta e nei tondi su tela vengono svolti gli episodi più importanti dell’Eneide.

Sull’ovale della volta è raffigurato il Concilio degli dei, con Venere, madre di Enea al cospetto di Giove.

Nelle due grandi lunette sono rappresentati, lo Sbarco di Enea e Enea e Venere, mentre i quattro tondi laterali sono dedicati agli episodi della fuga da Troia, di Enea e Didone, di Venere commissiona a Vulcano le armi di Enea e della sconfitta di Turno.

La Grande Bellezza…

In copertina: la Galleria Dorata di Lorenzo De Ferrari. Foto di Stefano Eloggi.

Il Presepe di cera

Si tratta senz’altro, custodito presso l’Accademia Ligustica delle Belle Arti, di uno dei presepi più particolari della città. Particolare sia per via delle sue minuscole dimensioni che per il materiale, la cera, con cui è realizzato.

Una miniatura talmente delicata e preziosa da essere stata inizialmente creduta in avorio come risulta dall’inventario del 1874 anno in cui il collezionista Antonio Merli la donò all’Accademia.

Autore di questo prodigio di raffinata tecnica è l’artista bavarese di origine italiana Johann Baptist Cetto ( 1671 – 1738) specializzato nella rappresentazione di scene sacre tratte dalla Bibbia.

Le minuscole statuine in rilievo (mm 84 x 62 x 16) sono racchiuse in una raffinata ed elegante cornice d’ebano e filigrana d’argento.

La Grande Bellezza…

Piazza Sant’Elena

Senza nulla togliere allo scatto del fotografo vedere piazza Sant’Elena deserta a quelli della mia generazione fa un po’ impressione.

Infatti la piazzetta che deve il suo nome all’omonimo scomparso oratorio di Sant’Elena si affaccia su via Gramsci e dal secondo dopoguerra fino ai primi anni ’90 ospitava il frequentatissimo mercatino di Shangai dove si poteva trovare veramente di tutto, dall’abbigliamento all’elettronica, ai generi di contrabbando ed ogni altro tipo di merce.

Non bastano nei giorni di maggiore afflusso di avventori i tavolini dell’attigua trattoria dell’Acciughetta per lenire la nostalgia del passato.

Mentre scrivo mi sembra di ascoltare ancora il vivace e colorito proporre le proprie mercanzie e il contrattare dei venditori che animavano la piazzetta.

Momenti di vita quotidiana dell’angiporto immortalati anche in una scena in bianco e nero del film “Au dela des Grilles”, ovvero in italiano “le Mura della Malapaga” del 1949 di Renè Clement in cui alle spalle del protagonista Pierre interpretato da Jean Gabin un commerciante vende una saponetta ad un cliente.

Per fortuna gli allegri colori di alcuni edifici della piazza in contrasto con il grigio della pietra mantengono vivido lo sbiadito ricordo in bianco e nero del tempo che fu.

La Grande Bellezza…

In copertina Piazza Sant’Elena. Foto di Stefano Eloggi.

Vico Morchi

Vico e piazza Morchio o Morchi devono il nome alla famiglia originaria dei dintorni di Rapallo dal 1350.

Costoro in città possedevano una casa con relativa torre ancora oggi visibile dal lato di Piazza Caricamento.

Nel 1528 con la riforma degli Alberghi voluta da Andrea D’Oria la famiglia fu ascritta in quella dei Giustiniani.

All’angolo con Sottoripa una lapide ricorda che qui aveva sede l’albergo Croce di Malta che ospitò molti personaggi illustri: Fenimore Cooper, Henry James, Mary Shelley, Stendhal, Flaubert, Mark Twain e Giuseppe Verdi.

La Grande Bellezza…

In copertina Vico Morchi. Foto di Stefano Eloggi

La Divina Pietà

Dopo il palazzo Ducale, la dimora della potenza passata di Genova, bisogna visitare lAlbergo dei poveri molto più ricco del palazzo Ducale stesso. Tre grandi architetti lo hanno costruito con un lusso incredibile. Vi si può ammirare, adagiato tra le braccia della Madonna, un magnifico Cristo di Michelangelo, marmo stupendo“.

Con queste parole Jules Janin, scrittore romantico francese nel suo “Voyage en Italie” del 1838, descriveva la preziosa scultura custodita presso l’altare maggiore della cappella dell’Albergo dei Poveri.

Per molti secoli infatti esperti e illustri visitatori hanno ritenuto tale mirabile capolavoro frutto della divina arte del rinascimentale genio aretino.

Stendhal – ad esempio – nel suo “Journal d’un voyage en Italie et en Suisse, pendant l’année 1828″ annotava:

«Vedere l’ospedale o Albergo dei poveri: bassorilievo attribuito a Michelangelo»

Anche Giuseppe Banchero, ottocentesco esperto genovese, fra le opere degne di menzione cita naturalmente la «Divina Pietà», secondo lui «condotta dallo scalpello di Michel più che mortal angiol Divino»

A mettere in dubbio la paternità dell’opera fu il coevo e conterraneo storico Federico Alizeri che scrisse:

«dicono che in fatto di belle arti gran giudice è l’occhio e questo li avvisa come nella scultura manchi sovratutto quel risoluto, deciso, magistrale ch’è la somma dote di quel divino, senza dir delle pieghe mal composte e dure sul capo di N.D., e le minute ed ignobili forme del viso. Cercano per tanto ne’ seguaci di Michelangelo un nome probabile e non a torto s’arrestano al Montorsoli e al Francavilla, ambo vissuti a Genova e ambo devoti a quello stile».

Il celebre ottocentesco storico genovese aveva visto giusto infatti il prodigioso ovale marmoreo è oggi attribuito con ragionevole certezza all’allievo fiorentino di Michelangelo, Giovanni Angelo Montorsoli.

La Grande Bellezza…

In copertina: La Divina Pietà dell’Albergo dei Poveri. Foto tratta dal sito albergodeipoveri.com

La magia senza tempo del Carmine

Piazza del Carmine è il punto di partenza ideale per una passeggiata alla scoperta di un quartiere del centro storico un po’ fuori dai soliti percorsi ma non per questo meno affascinante.

Al centro il mercato comunale edificato nel 1921 e recentemente restaurato la fa da padrone, sorvegliato bonariamente da un lato dalla maestosa edicola votiva di San Simone Stock, dalla chiesa di N.S. del Carmine dall’altro.

Trattoria, bar e panificio, in cui tra l’altro si sforna una gustosissima focaccia prodotta a regola d’arte, animano la piazzetta da cui si dipartono alcune suggestive creuze: salita Carbonara in cima alla quale c’era nel XIV secolo l’omonima porta, trasformata poi in lavatoi pubblici; che dire poi delle vicine piazzetta e vico della Giuggiola che insieme a salita e piazzetta dell’Olivella con relativo convento di San Bartolomeo sono luoghi magici sospesi nel tempo; salita San Bernardino con il suo strepitoso e ingegnoso incrocio di archetti in laterizio e poi tutti quei caruggetti che rivelano la vocazione pasticcera artigianale della contrada quali vico dello Zucchero, del Cioccolatte e della Fragola o rammentano l’origine pagana come Vico Valore dal nome del tempio dedicato in tempi remoti all’omonima virtù.

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In copertina: Piazza del Carmine. Foto di Stefano Eloggi.

Il Ninfeo di palazzo Nicolosio Lomellino

Varcato l’incantevole atrio del palazzo Nicolosio Lomellino di Via Garibaldi n. 7 si accede al cortile dominato da un imponente ninfeo frutto dell’ingegno di Domenico Parodi.

La fonte nel monumentale prospetto è alimentata dalla caduta delle acque provenienti dalla cisterna della retrostante collina del Castelletto.

L’imponente ninfeo si sviluppa appositamente in altezza per conferire continuità tra il palazzo e i giardini alla spettacolare scena.

Ed ecco che, fra l’edificio e la collina retrostante, si ammirano due ninfei connessi in soluzione di continuità l’uno con l’altro, il primo al piano del cortile e il secondo nel terrazzo sovrastante. 
Più in alto si sviluppa un ampio giardino realizzato su due livelli, costruiti, secondo tradizione, ‘in costa’, che funge da scenografica quinta.
La volta del grande ninfeo è retta da due giganteschi tritoni, realizzati dall’allievo Francesco Biggi, mentre un putto versa l’acqua, che incorniciavano una purtroppo perduta scena ispirata al mito di Fetonte.

Già Alizeri nella sua Guida del 1875 scriveva che il gruppo di “Fetonte giù capovolto dal cielo e un genietto dall’alto a versar acque da un’urna”, eseguito in stucco e collocato immediatamente sopra il grande arco, risultava a quell’epoca già disperso probabilmente eroso e sgretolato nei secoli dall’acqua.


Il giovane Fetonte, figlio del Sole, aveva ottenuto faticosamente la possibilità di guidare per un giorno il carro del padre ma, non sapendo reggerne i focosi cavalli, aveva incautamente bruciato il Cielo e la Terra, ed era stato per questo rovesciato da Zeus con un fulmine e precipitato nel fiume Eridano.

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In copertina: il Ninfeo di Palazzo Nicolosio Lomellino.

Poggio Bachernia

Percorrendo la Circonvallazione a Monte da Corso Magenta si accede in un luogo incantato dove il tempo sembra avere ritmi meno frenetici.

Salite le scalette di salita superiore di S. Anna ci si trova in una suggestiva piazzetta alberata dove si staglia l’omonima chiesa.

Questo silenzioso angolo della città, una piccola costa che divide la Valletta di Via Caffaro – appunto – da quella di S. Anna, è attraversata da una classica creuza che dal Righi scende a valle.

“Poggio Bachernia”.Foto di Leti Gagge.

Sul Poggio Bachernia, dal nome del sottostante omonimo rivo, questo è il suo nome, nel 1584 vennero edificati dai Carmelitani Scalzi sia chiesa e convento.

Imboccando il breve vialetto a sinistra si accede alla celebre secentesca farmacia del convento con i suoi spettacolari arredi, vasellami, ricettari e mobilio d’epoca.

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In copertina: Il Poggio Bachernia. Foto di Leti Gagge.

L’aquila e il ninfeo in Canneto il Lungo.

Alla confluenza con via Chiabrera si trova, in Canneto il Lungo al civ. n. 17, il palazzo Gio Andrea Cicala, poi Donghi.

Si tratta di una secentesca residenza nobiliare ascritta al terzo bussolotto, quello meno prestigioso dei Rolli.

Rappresenta, a mio parere, un classico esempio delle inaspettate bellezze che si possono scoprire dietro ad un, apparentemente anonimo, portone.

Sul modesto portale campeggia l’aquila, lo stemma nobiliare del casato e sul trave è inciso il motto “Mora non Reqvies”.

Sbirciando al suo interno si scorge, in un piccolo atrio con colonne doriche e soffitti a volta, un ingombrante cancello in ferro battuto.

A fianco dello scalone, una seconda imponente cancellata protegge un ninfeo.

La grotta è concepita con conchiglie, pietre, stalattiti e stalagmiti e alla base presenta una grande vasca marmorea.

Sul grande arco sovrastante un sapiente mosaico disegna due animali araldici, uno stemma incoronato ed un mascherone.

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In copertina: portone di palazzo Donghi Cicala. Foto di Giovanni Caciagli.

Galleria Ayrolo Negrone

Palazzo Negrone Ayrolo sorge sull’accorpamento di quello che era un tempo, in Piazza Fontane Marose, la residenza del governatore spagnolo in città.

Si tratta indiscutibilmente di uno dei palazzi dei Rolli più prestigiosi frutto, nella forma in cui lo possiamo ammirare oggi, delle rivisitazioni ottocentesche di Antonio Barabino.

Senza dubbio l’ambiente più significativo della dimora è la straordinaria galleria commissionata a metà ‘600 da Agostino Ayrolo a Giovanni Battista Carlone che ne decora la volta con le storie di Enea.

I magnifici affreschi in un trionfo di colori vividi e meravigliosamente conservati risultano valorizzati dagli ampi fasci di luce delle finestre che illuminano gli spazi. Le scene sono incastonate in un’articolata cornice di balaustre che fa risaltare il sapiente e suggestivo gioco prospettico.

Il racconto si sviluppa in tre principali scene che narrano il conflitto tra gli dei durante la guerra di Troia. Da un lato Giunone che istiga Marte ed Eolo contro l’eroe troiano, dall’altro Venere che, di contro, si fa garante e lo presenta addirittura a Giove.

Tutto attorno il Carlone rappresenta un ricco colorito catalogo di figure allegoriche e virtù che devono celebrare da un lato la regalità di Enea e l’avversità di Giunone nei suoi confronti, dall’altro.

Ma non finisce qui perché la famiglia Negrone, nel frattempo subentrata agli Ayrolo, impreziosisce la galleria con un ulteriore ciclo di affreschi alle pareti che racconta la battaglia di Lepanto del 1571.

Viene infatti affidato al pittore fiammingo Cornelius De Wael il compito di rappresentare il famoso scontro navale contro i turchi a cui il casato aveva partecipato con onore fra le fila del contingente comandato da Giovanni Andrea I D’Oria.

La dinamica narrazione del conflitto, ricca di dettagli trova nella conquista del vessillo della capitana turca (stendardo tuttora custodito nella Villa del Principe) il suo momento culminante.

La meraviglia della galleria viene completata qualche decennio più tardi dal pittore savonese Bartolomeo Guidobono a cui spetta l’incombenza di racchiudere le scene all’interno di cornici dinamiche metamorfiche che fungano sia da trait d’union tra parete e volta che da spazio autonomo espositivo.

La Grande Bellezza…

In copertina: Storie di Enea nella Galleria di Palazzo Ayrolo Negrone.

Foto di Lorenzo Zeppa.