All’interno della chiesa di S. Marco al Molo l’altare della corporazione dei Bombardieri (addetti all’uso e alla costruzione delle artiglierie) è impreziosito con il dipinto del Martirio di Santa Barbara, realizzato nel 1622 da un giovane Domenico Fiasella.
Proprio perché, secondo la tradizione agiografica, la santa era immune ai fulmini e al fuoco venne eletta a protettrice e patrona della corporazione.
Il carnefice vestito di rosso come il fuoco con una mano afferra Barbara per i capelli mentre con l’altra brandisce la spada pronto a sferrare il colpo letale.
La santa in ginocchio e con le braccia al sen conserte ha lo sguardo rivolto in alto verso due angioletti che recano lo Spirito Santo e sembra avere un’espressione rassegnata ma serena.
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In copertina: il Martirio di Santa Barbara in San Marco al Molo.
L’origine del toponimo di Piazza e vico dell’Agnello rimanda alla presenza del bassorilievo che rappresenta l’Agnus Dei posto sopra il civ. n. 9.
L’agnello con il vessillo crociato rappresentava sia il Cristo Redentore che il potere genovese e per questo venne adottato come effigie sulle facciate di molti palazzi nobiliari.
Tale simbolo religioso e politico militare al contempo venne addirittura utilizzato nella seconda metà del XIII secolo come sigillo della Repubblica.
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In copertina: Piazza dell’Agnello. Foto di Leti Gagge.
“È un posto che “cresce dentro di voi” giorno per giorno. Sembra sempre che vi sia qualcosa da scoprirvi. Potete smarrire il vostro cammino (che cosa gradevole è, quando siete senza meta!) venti volte al giorno, se vi aggrada; e ritrovarlo tra le più sorprendenti ed inaspettate difficoltà. Abbonda dei più strani contrasti: cose pittoresche, brutte, meschine, magnifiche, deliziose e disgustose vi si parano davanti allo sguardo ad ogni angolo”.
Cit. Charles Dickens (1812 – 1870) giornalista e scrittore britannico.
In copertina: Panorama genovese. Foto di Leti Gagge.
La piazza deve il nome alla nobile famiglia dei De Marini che qui avevano le proprie dimore.
Ciò si evince dalle cronache della lotta intestina del 1398 tra guelfi e ghibellini in cui questi ultimi bruciarono oltre cinquanta case di cui quattro di proprietà, appunto dei De Marini.
Questo antichissimo casato trae origine da Marino, figlio di Baldo fu Guglielmo, direttamente da Ido Visconti.
Fra i suoi membri annovera Conti (di Gavi), Marchesi (Castelnuovo Scrivia), alcuni cardinali, diversi arcivescovi, numerosi senatori e un doge, Gio Agostino di Gerolamo.
Questa località fuori dalle mura del X secolo era identificata un tempo come contrada dei Marmi o marmorea poiché qui avevano sede i depositi del prezioso materiale appena sbarcato dal porto.
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In copertina: Piazza De Marini. Foto di Stefano Eloggi.
Vico delle Fate in realtà fino al 1868 si chiamava vico della Stella. L’intitolazione venne cambiata per non confonderlo con vico Stella, il caruggio dedicato alla celebre famiglia di annalisti nel sestiere della Maddalena.
Guardando la foto a metà sulla destra s’intravede sul portone del civ. n. 3 una grande edicola in stucco, catalogata come Madonna col Bambino. Purtroppo il tabernacolo, gravemente danneggiato, è privo della statua che è stata rubata.
Si ipotizza che il toponimo delle fate sia stato ispirato, vista la presenza in loco delle case chiuse, in omaggio alle signorine che vi esercitavano il mestiere più antico del mondo.
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In copertina: Vico delle Fate. Foto di Giovanni Cogorno.
Sempre nella zona dei Macelli di Soziglia imboccato vico del Pepe si prosegue in vico della Luna il cui toponimo rimanda al nome dell’insegna di un’antica osteria presente un tempo in loco.
Si tratta sicuramente di uno dei caruggi più stretti (108 cm) di Genova in concorrenza con il primatista assoluto Vico delle Monachette (79 cm).
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In copertina: Vico della Luna. Foto di Giovanni Cogorno.
“Va ciù unn-a grann-a de peivie che unn-a succa”. L’antico adagio la dice lunga sul valore che aveva il pepe nel panorama delle spezie.
Genova contese a lungo senza successo il monopolio del pepe a Venezia e, come si evince dal toponimo, qui stabilì magazzini e rivendite del prezioso aroma.
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Foto di Giovanni Cogorno.
Manarola come del resto le altre quattro con sorelle che compongono le Cinque Terre è una perla incastonata nella roccia.
I suoi abitanti originari furono i membri di un’antica tribù ligure della Val di Vara costretti a cercare sbocco verso il mare dalla crescente urbanizzazione romana.
Assai particolare è la via dei Birolli lungo la quale oltre a locali e ristoranti, non essendoci un vero e proprio porticciolo, sono parcheggiate le barche.
I gozzi infatti vengono calati in mare con un ingegnoso paranco.
Oggi Manarola è famosa in tutto il mondo per il suo grande presepe di luminarie, ideato da Mario Andreoli, che illumina nel periodo natalizio tutta la collina.
Ancora riconoscibile ė il primitivo castello scavato nel costone attorno al quale si è formato il nucleo cittadino.
Nonostante sia stato ormai inglobato nelle abitazioni limitrofe e non funga più da baluardo contro le scorrerie turche e saracene, la sua forma arrotondata in pietra è inconfondibile.
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In copertina: Manarola di notte. Foto dell’autore.
Via di Scurreria detta la Vecchia per non confonderla con la Nuova aperta nel XVI sec. per volontà della famiglia Imperiale, non era altro che l’antica via Scutaria.
Qui avevano sede le officine degli scudai sostituite poi nel tempo dalle botteghe dei setaioli, tessuto per il confezionamenti del quale i toscani erano maestri.
Non a caso la piazzetta dove oggi c’è la farmacia era nota come piazzetta dei Toscani e con lo stesso nome era identificata tutta la contrada.
In Scurreria la Vecchia era inoltre consuetudine dei mercanti toscani stendere a terra stoffe, velluti e arazzi preziosi in concomitanza del passaggio della processione del Corpus Domini.
Qui ebbe bottega anche Paolo da Novi – tintore di stoffe di professione – eletto a furor di popolo nel 1507 primo doge popolare.
Costui capeggiò la ribellione che nello stesso anno mise in fuga il governatore francese e la principale famiglia cittadina sostenitrice di Luigi XII, quella dei Fieschi.
Purtroppo per i ribelli il re i suoi seguaci in due mesi riconquistarono il potere. Il doge venne rinchiuso nella torre del Popolo, o Grimaldina che dir si voglia, e pubblicamente giustiziato per decapitazione davanti a palazzo ducale il 10 luglio 1507.
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In copertina: Scurreria la Vecchia. Foto di Stefano Eloggi.
Circa a metà della Salita San Siro che raccorda piazza del Fossatello con la chiesa, la ex cattedrale di S.Siro ci si imbatte in un sinistro cancello varcato il quale si accede all’angusto vico chiuso del Leone.
Il buio caruggio versa nel più completo degrado: fili penzolanti, depositi rifiuti, muri scrostati.
Eppure anche questo apparentemente anonimo vicolo ha la sua storia da raccontare legata in questo caso al nome dell’albergo Leon Rouge dove nel 1857 la polizia sabauda aveva attirato con l’inganno Mazzini per arrestarlo.
Costui riuscì ad evitare l’imboscata trovando rifugio e accoglienza in vico delle Monachette.
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In copertina: Vico chiuso del Leone. Foto di Roberto Crisci.