Era questa, di qui il nome, la contrada dove si trovavamo le proprietà della famiglia Usodimare.
La stirpe prende il nome da Uso di Mare, figlio di Otto Visconti, così detto per via del suo essere avvezzo alla lunga navigazione.
Gente di mare dunque, fra i suoi esponenti marinai, esploratori e mercanti.
Antoniotto Usodimare insieme al veneziano Alvise da Mosto nel 1456 arrivò fino in Gambia dalle cui coste risalí all’interno navigando lungo l’omonimo fiume per decine di chilometri. Durante il viaggio commerciò con le popolazioni indigene incontrate.
Impresa compiuta per conto del Portogallo dal cui re Enrico il Navigatore ottenne la Capitaneria dell’isola di Sao Tiago avamposto della colonizzazione lusitana.
Con la riforma degli Alberghi del 1528 gli Usodimare costituirono il quinto dei 28 alberghi.
In Copertina: Vico Usodimare. Foto di Alessandra Illiberi Anna Stella.
Certo due cose non mi sono, come credo alla maggior parte dei miei concittadini, piaciute: più che l’inopportuna inflessione romana, l’assenza se non della lingua, per lo meno della cantilena nostrana la prima; la citazione fra tante specialità genovesi (anche cantate da Faber penso alla Cima e al pesto) della carbonara, la seconda.
Si può anche discutere sul finale già che siamo in tema romano “alla volemose bene” e ai diversi pesi in termini di importanza attribuiti ai vari episodi della vita dell’artista.
Molto ad esempio è stato dedicato all’esperienza sarda e al rapimento, nulla al periodo infantile piemontese e poco a quello inerente agli ambienti anarchici rappresentati in maniera marginale dalla figura del poeta Riccardo Mannerini.
Genova proprio come una madre discreta appare, seppur di una bellezza disarmante, un po’ in disparte.
Il protagonista a livello di mimica, secondo il mio modesto parere, è stato all’altezza e così gli altri attori. Detto questo, nel complesso vado “in direzione ostinata e contraria”, il fumettone non mi è dispiaciuto.
Avendo letto diverse biografie, mi riferisco in particolare a quelle di Milesi e Viva e il suo unico romanzo scritto a quattro mani con Gennari “Un destino Ridicolo”, ho trovato corrispondenza con quanto era di mia conoscenza.
Credo che la delusione di molti sia dovuta al fatto che si aspettavano un panegirico sul De Andre’ artista e invece è stato un racconto del Fabrizio uomo. Con le sue debolezze, contraddizioni, sofferenze. Insomma la sua umana fragilità così bene espressa nella sua canzone manifesto e autobiografica “Amico Fragile”.
Il rapporto intimo con la divinità che alberga in ogni uomo e non nelle chiese e l’anarchia sperimentata come soluzione a domande che risposta non hanno.
La scrittura di parole e musica come catarsi, come unica via di salvezza. La scelta di schierarsi con gli ultimi e di interrompere il banale refrain “Cuore e Amore” per proporre qualcosa di più colto elevato ma, al contempo, fruibile a tutti.
Perché Fabrizio sceglie si il linguaggio ma anche il suo interlocutore, l’anima e quella non ha censo né titoli.
All’insicurezza e alla timidezza dell’artista fanno da contraltare la carnalità delle sue frequentazioni nei caruggi, l’amicizia intellettuale con Tenco e quella goliardica con Villaggio.
Il Fabrizio figlio di un padre ingombrante e fratello di un altro De André non meno competitivo. La paura di non farcela, di non essere all’altezza.
Il matrimonio borghese con la prima moglie Puny, il rapporto di padre assente nei confronti di Cristiano prima e di Luvi poi, perché immerso nella ricerca, prima che della perfezione, di sé stesso.
Il fumo l’alcool come anestetici di un’anima troppo sensibile per annegare nelle convenzioni borghesi. Convenzioni infrante dall’amore maturo e spontaneo con Dori.
L’esperienza devastante del rapimento in Barbagia. La straordinaria promessa al padre in punto di morte per me, forse il momento più alto, in cui Fabrizio uomo si supera cercando di esaudire prima che il padre la propria coscienza. Perché in fondo tutti noi non aneliamo altro che scendere dalle braccia del padre e correre per il mondo per poi tornarci fra quelle braccia e dire “Hai visto papà?”.
Papà ha visto eccome perché parole sue “Regalandoti una chitarra ho fatto il più grande investimento della mia vita”.
De André che dipinge con le note e scolpisce con le parole. Un artista che non lascia nulla al caso e che leviga i versi alla ricerca perenne dell’irraggiungibile perfezione, come fa il mare con i sassi sulla spiaggia.
Il tendere alla perfezione questa la vera cifra di Fabrizio.
Ecco forse il De André artista meritava più risalto ma senza l’uomo così umano e fragile non ci sarebbe stato il più grande poeta del Novecento e questo – spero – insieme all’ineguagliabile bellezza della Superba, l’abbiano capito anche i sei milioni d’italiani che hanno seguito la fiction.
Il 9 aprile 1970 è una data scolpita nella memoria dei genovesi un pò attempati come me. A dire il vero io nacqui l’anno seguente ma quello che accadde lo rivissi nei racconti dei miei genitori che osservarono consumarsi la tragedia dalle finestre di casa in Corso Saffi.
Quel giorno infatti all’imboccatura del porto di Genova naufragò il mercantile britannico London Valour. A circa 300 metri dalla diga Duca di Galliera, causa una devastante mareggiata, la nave perse l’ancoraggio e si schiantò sulla scogliera. Venti membri dell’equipaggio, prevalentemente marinai asiatici, persero la vita.
I venti che soffiavano a 100 km all’ora avevano prodotto una libecciata con onde alte oltre quattro metri che avevano reso proibitivi i soccorsi di ormeggiatori, rimorchiatori, Nucleo Sommozzatori Carabinieri, Capitaneria di porto e Vigili del Fuoco. Tutti si erano comunque prontamente mobilitati.
In particolare l’intervento di soccorso compiuto dalla motovedetta CP 233 della Capitaneria di Genova, l’unica a raggiungere lo scafo, fu una delle operazioni di soccorso più difficili mai condotte dalleCapitanerie di Porto. Il tenente di vascello Giuseppe Telmon ed i suoi sette uomini furono poi insigniti, per il loro gesto eroico con la Medaglia al valore di Marina, d’oro per il comandante, d’argento per l’equipaggio. Questi uomini misero infatti in grave pericolo la propria vita, riuscendo a portare in salvo ben 26 persone. Altre benemerenze vennero rilasciate al Corpo Piloti del Porto e ai Vigili Sommozzatori.
Ma il ricordo più sentito e commosso dei genovesi va senza dubbio al maggiore dei Vigili del Fuoco Rinaldo Enrico che, contro il parere di tutti viste le avverse condizioni, con il suo elicottero il “Libellula” si alzò in volo per gettare in mare, nel frattempo resosi catramoso dalle perdite dello scafo, più salvagenti possibili.
Per questo coraggioso comportamento nel luglio del 1975 gli fu conferita postuma la medaglia d’oro al valor civile ma la cittadinanza, già un paio d’anni prima, aveva voluto ricordare il suo eroe, nel frattempo morto durante un’esercitazione, apponendo una targa di ringraziamento in lingua genovese nel borgo marinaro di Vernazzola.
Una simile tragedia non potè non tradursi in una struggente canzone “Parlando della London Valour” di De Andrè, il cui intimo amico il poeta e marinaio Riccardo Mannerini era a sua volta amico personale del maggiore Enrico.
Presso i Magazzini del Cotone nel Porto Antico un’altra lapide ricorda la terribile catastrofe riportando proprio i versi di Faber.
I marinai foglie di coca Digeriscono in coperta Il capitano ha un amore al collo Venuto apposta dall’Inghilterra Il pasticcere di via Roma Sta scendendo le scale Ogni dozzina di gradini Trova una mano da pestare Ha una frusta giocattolo Sotto l’abito da tè E la radio di bordo È una sfera di cristallo Dice che il vento si farà lupo Il mare si farà sciacallo Il paralitico tiene in tasca Un uccellino blu cobalto Ride con gli occhi al circo Togni Quando l’acrobata sbaglia il salto E le ancore hanno perduto La scommessa e gli artigli I marinai uova di gabbiano Piovono sugli scogli Il poeta metodista Ha spine di rosa nelle zampe Per far pace con gli applausi Per sentirsi più distante La sua stella si è oscurata Da quando ha vinto la gara Di sollevamento pesi E con uno schiocco di lingua Parte il cavo dalla riva Ruba l’amore del capitano Attorcigliandole la vita Il macellaio mani di seta Si è dato un nome da battaglia Tiene fasciate dentro il frigo Nove mascelle antiguerriglia Ha un grembiule antiproiettile Tra il giornale e il gilè E il pasticciere e il poeta E il paralitico e la sua coperta Si ritrovarono sul molo Con sorrisi da cruciverba A sorseggiarsi il capitano Che si sparava negli occhi E il pomeriggio a dimenticarlo Con le sue pipe e i suoi scacchi E si fiutarono compatti Nei sottintesi e nelle azioni Contro ogni sorta di naufragi E di altre rivoluzioni E il macellaio mani di seta Distribuì le munizioni
In Piazza Marsala all’interno della chiesa anglicana dello Spirito Santo è custodita la campana, a perenne memoria di quella nefasta tragedia, della London Valour.
«E allora, non chiedere mai per chi suoni la campana. Essa suona per te.» Cit da “Per chi suona la campana ” romanzo di Ernest Hemingway del 1940.
In copertina: la campana della London Valour. Foto di Leti Gagge.
E au postu do Pesciu palla, a moea l’è vegnoua a galla…
Intu mezu du mä Gh’è ‘n pesciu tundu Che quandu u vedde ë brûtte U va ‘nsciù fundu Intu mezu du mä Gh’è ‘n pesciu palla Che quandu u vedde ë belle U vegne a galla.
Traduzione in italiano dal genovese. In mezzo al mare c’e un pesce tondo che quando vede le brutte va sul fondo in mezzo al mare c’è un pesce palla che quando vede le belle viene a galla
Cit. da Sinan Capudan Pascià (album Creuza de ma del 1984) di Fabrizio De André.
In copertina: pesce luna al largo del mare di Deiva Marina (SP). Foto di Mauro.
La strada è piena di chiari di luna / e le tue mani vele per il mare / in questa notte che ne vale la pena / l’ansimare delle ciminiere / Genova era una ragazza bruna / collezionista di stupore e noia / Genova apriva le sue labbra scure / al soffio caldo della macaia / e adesso se ti penso io muoio un pò / se penso a te che non ti arrendi / ragazza silenziosa dagli occhi duri / amica che mi perdi / adesso abbiamo fatto tardi / adesso forse è troppo tardi / Voci di un cielo freddo già lontano / le vele sanno di un addio taciuto / con una mano ti spiego la strada / con l’altra poi ti chiedo aiuto / Genova adesso ha chiuso in un bicchiere / le voci stanche le voci straniere / Genova hai chiuso tra le gelosie / le tue ultime fantasie / E adesso se ti penso io muoio un pò / se penso a te un pò mi arrendo / alle voci disfatte dei quartieri indolenti / alle ragazze dai lunghi fianchi / e a te che un po’ mi manchi / ed è la vita intera che grida dentro / o forse il fumo di Caricamento / c’erano bocche per bere tutto / per poi sputare tutto al cielo / erano notti alla deriva / notti di Genova che non ricordo e non ci credo / Genova rossa, rosa ventilata / di gerani ti facevi strada / Genova di arenaria e pietra / anima naufragata / Ti vedrò affondare in un mare nero / proprio dove va a finire l’occidente / ti vedrò rinascere incolore / e chiederai ancora amore / senza sapere quello che dai / perché è la vita intera che grida dentro / o forse il fumo di Caricamento / c’erano bocche per bere tutto / per poi sputare tutto al cielo / erano notti alla deriva / notti di Genova che regala / donne di madreperla / con la ruggine sulla voce / e ognuna porta in spalla la sua croce / tra le stelle a cielo aperto / mentre dentro ci passa il tempo / proprio adesso che ti respiro / adesso che mi sorprendi così / che se ti penso muoio un po’ / che se ti penso muoio un po’ / che se ti penso muoio un po’.
Cit.testo del brano Notti di Genova di Cristiano De Andre’.
In copertina: il Porto Antico di notte. Foto di Beatrice Bereggi.
Genova. Che cosa significa, per me? Ho avuto la fortuna di nascere in questa etnia, in questo piccolo mondo dove si parla una lingua diversa, che faceva parte di uno stato molto più grande ma con un idioma, una cucina, una cultura autonomi. Questo ti fa sentire così vicino a queste persone che condividono la tua diversità, ti senti a tua volta differente dal resto del mondo, sei membro di una grande famiglia di settecentomila persone che ha usi e costumi tutti suoi. E se arrivi a Milano, ci arrivi come un immigrato dal Sud.
Cit. Fabrizio De André.
In copertina: Via Luccoli. Foto di Pippo Ingrassia.
Fino a qualche anno fa lo slargo intitolato a Don Gallo nel cuore del ghetto ebraico genovese era un triste cumulo di decennali macerie post belliche.
Grazie al Comune che ha contribuito alla pavimentazione e alle associazioni di quartiere che lo hanno pulito, con in primis l’abbellimento floreale ad opera di “Princesa”, lo spiazzo il 18 luglio 2014 é diventato piazza in memoria – come recita la targa – di don Andrea Gallo prete di strada.
Particolare e significativo il disegno che, prendendo spunto da un pilastro di una loggia tamponata utilizzato a mo’ di tronco d’albero, rappresenta un bambino che annaffia la pianta.
Proprio come nei versi della celebre canzone di De Andre’, del resto siamo proprio nei pressi di Via del Campo, “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”.
La Grande Bellezza…
In copertina: Piazza Don Andrea Gallo. Foto di Leti Gagge.
“A Dumenega” scritto a quattro mani da Fabrizio De André e Mauro Pagani più che una canzone è una colorita istantanea che descrive in maniera sagace un’usanza tutta genovese, ovvero lo scandaloso quanto ipocrita “rito” della passeggiata domenicale delle prostitute.
A costoro infatti che per tutta la settimana erano relegate a esercitare la loro professione in un quartiere ben delimitato della città, quello del Monte Albano alle pendici del Castelletto, solo alla domenica veniva concesso di passeggiare liberamente e di partecipare alle funzioni religiose.
De André racconta gli atteggiamenti della gente al passaggio di queste prostitute e descrive le reazioni dei vari personaggi, tutti accomunati dall’incoerenza e dal finto moralismo perbenista: da chi grida loro qualsiasi epiteto sconcio la domenica e poi le frequenta durante la settimana facendone “le pubbliche mogli”, al direttore del porto, che è felice di tutto quel ben di Dio a passeggio che porta tanti soldi nelle casse del Comune, finanziando la costruzione di un nuovo molo ma, per non essere da meno rispetto agli altri, comunque le insulta.
In molti hanno ritenuto questi versi poco più di una piccante quanto suggestiva licenza poetica priva di fondamento storico, frutto del genio narrativo dei suoi due autori.
De André e Pagani avevano invece trascritto in modo ispirato e canzonatorio un’accurata ricerca avvalorata da diversi studi quali ad esempio la “Città portuale del medioevo” dei professori Bianchi-Poleggi che confermavano come, a partire già dal 1339, effettivamente quegli introiti avessero contribuito alla costruzione di calata Cattaneo.
Quegli stessi introiti che avrebbero concorso nei secoli successivi a finanziare anche i lavori di restauro della Cattedrale di San Lorenzo, della Porta del Molo e della costruzione di molti nobili palazzi cittadini.
Addirittura nel 1418 venne istituita un’apposita magistratura con relativo Podestà, preposto alla riscossione delle decime, una tassa di cinque soldi da pagarsi mensilmente, sostituita successivamente da un più pratico obolo forfettario.
Nel 1461 inoltre si stabilì che le bagasce dovessero essere foreste e che si abbigliassero, per non confonderle con le donne “comuni et honeste”, in maniera diversa dalle stesse.
A metà del ‘500 il quartiere a loro riservato venne raso al suolo per far posto alla strada dei signori, la moderna e lussuosa Strada Nuova, nota anche come via Aurea, odierna via Garibaldi.
Con le pietre recuperate dalla demolizione l’architetto perugino Galeazzo Alessi edificò la maestosa cupola della basilica di Carignano.
Tornando ai personaggi della canzone, che dire poi della tragicomica, per non dire patetica, macchietta del rozzo bigotto che, per legge di contrappasso, anche lui, per essere conforme al “branco”, inveisce contro le bagasce, ma sembra essere l’unico a non riconoscere fra queste anche la propria moglie.
Quandu ä dumenega fan u gíu cappellin neuvu neuvu u vestiu cu ‘a madama a madama ‘n testa o belin che festa o belin che festa a tûtti apreuvu ä pruccessiún d’a Teresin-a du Teresún tûtti a miâ ë figge du diàu che belin de lou che belin de lou
e a stu luciâ de cheusce e de tettín ghe fan u sciätu anche i ciû piccin mama mama damme ë palanche veuggiu anâ a casín veuggiu anâ a casín e ciû s’addentran inta cittæ ciû euggi e vuxi ghe dan deré ghe dixan quellu che nu peúan dî de zeùggia sabbu e de lûnedì
a Ciamberlinú sûssa belin ä Fuxe cheusce de sciaccanuxe in Caignàn musse de tersa man e in Puntexellu ghe mustran l’öxellu
a Ciamberlinú sûssa belin ä Fuxe cheusce de sciaccanuxe in Caignàn musse de tersa man e in Puntexellu ghe mustran l’öxellu
e u direttú du portu c’u ghe vedde l’ou ‘nte quelle scciappe a reposu da a lou pe nu fâ vedde ch’u l’è cuntentu ch’u meu-neuvu u gh’à u finansiamentu u se cunfunde ‘nta confûsiún cun l’euggiu pin de indignasiún e u ghe cría u ghe cría deré bagasce sëi e ghe restè
e ti che ti ghe sbraggi apreuvu mancu ciû u nasu gh’avei de neuvu bruttu galûsciu de ‘n purtòu de Cristu nu t’è l’únicu ch’u se n’è avvistu che in mezzu a quelle creatúe che se guagnan u pan da nûe a gh’è a gh’è a gh’è a gh’è a gh’è anche teu muggè
a Ciamberlinú sûssa belin ä Fuxe cheusce de sciaccanuxe in Caignàn musse de tersa man e in Puntexellu ghe mustran l’öxellu
a Ciamberlinú sûssa belin ä Fuxe cheusce de sciaccanuxe in Caignàn musse de tersa man e in Puntexellu ghe mustran l’öxelluLa Domenica, traduzioneQuando alla domenica fanno il giro cappellino nuovo nuovo il vestito con la madama la madama in testa cazzo che festa cazzo che festa e tutti dietro alla processione della Teresina del Teresone tutti a guardare le figlie del diavolo che cazzo di lavoro che cazzo di lavoro
e a questo dondolare di cosce e di tette gli fanno il chiasso anche i più piccoli mamma mamma dammi i soldi voglio andare al casino voglio andare al casino e più si addentrano nella città più occhi e voci gli danno dietro gli dicono quello che non possono dire di giovedì di sabato e di lunedì
a Pianderlino (via e zona sopra San Fruttuoso e Marassi) succhia cazzi alla Foce cosce da schiaccianoci in Carignano fighe di terza mano e a Ponticello gli mostrano l’uccello
a Pianderlino succhia cazzi alla Foce cosce da schiaccianoci in Carignano fighe di terza mano e a Ponticello gli mostrano l’uccello
e il direttore del porto che ci vede l’oro in quelle chiappe a riposo dal lavoro per non fare vedere che è contento che il molo nuovo ha il finanziamento si confonde nella confusione con l’occhio pieno di indignazione e gli grida gli grida dietro bagasce siete e ci restate
e tu che gli sbraiti appreso neanche più il naso avete di nuovo brutto stronzo di un portatore di Cristo non sei l’unico che se ne è accorto che in mezzo a quelle creature che si guadagnano il pane da nude c’è c’è c’è c’è c’è anche tua moglie
a Pianderlino succhia cazzi alla Foce cosce da schiaccianoci in Carignano fighe di terza mano e a Ponticello gli mostrano l’uccello
a Pianderlino succhia cazzi alla Foce cosce da schiaccianoci in Carignano fighe di terza mano e a Ponticello gli mostrano l’uccello.
In Copertina: i brassezei della Foce portano in processione i loro crocifissi
Quando Tenco posava sotto la Lanterna, sguardo triste e assorto, abito scuro in stile esistenzialista alla Jean Paul Sartre.
Nel 1967 di ritorno dal suo funerale De André compose questa straordinaria poesia per raccomandare l’amico al Signore.
Lascia che sia fiorito Signore, il suo sentiero quando a te la sua anima e al mondo la sua pelle dovrà riconsegnare quando verrà al tuo cielo là dove in pieno giorno risplendono le stelle.
Quando attraverserà l’ultimo vecchio ponte ai suicidi dirà baciandoli alla fronte venite in Paradiso là dove vado anch’io perché non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio.
Fate che giunga a Voi con le sue ossa stanche seguito da migliaia di quelle facce bianche fate che a voi ritorni fra i morti per oltraggio che al cielo ed alla terra mostrarono il coraggio.
Signori benpensanti spero non vi dispiaccia se in cielo, in mezzo ai Santi Dio, fra le sue braccia soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte che all’odio e all’ignoranza preferirono la morte.
Dio di misericordia il tuo bel Paradiso lo hai fatto soprattutto per chi non ha sorriso per quelli che han vissuto con la coscienza pura l’inferno esiste solo per chi ne ha paura.
Meglio di lui nessuno mai ti potrà indicare gli errori di noi tutti che puoi e vuoi salvare.
Ascolta la sua voce che ormai canta nel vento Dio di misericordia vedrai, sarai contento.
Di fronte ad un panorama come questo non è difficile immaginare quanto dovesse essere duro per il navigante genovese abbandonare la propria città.
Allora si comprende come in quel fazzoletto chiaro sventolato dalla moglie ci sia tutto il dolore del distacco e come questo, con quella foto di ragazza dentro quella berretta nera, si trasformi in speranza del ritorno.
D’ä mæ riva sulu u teu mandillu ciaèu d’ä mæ riva ‘nta mæ vitta
u teu fatturisu amàu ‘nta mæ vitta ti me perdunié u magún ma te pensu cuntru su
e u so ben t’ammii u mä ‘n pò ciû au largu du dulú e sun chi affacciòu a ‘stu bàule da mainä
e sun chi a miä tréi camixe de vellûu dui cuverte u mandurlin e ‘n cämà de legnu dûu
e ‘nte ‘na beretta neigra a teu fotu da fantinn-a pe puèi baxâ ancún Zena ‘nscià teu bucca in naftalin-a.
Traduzione per i foresti:
Dalla mia riva solo il tuo fazzoletto chiaro dalla mia riva nella mia vita
il tuo sorriso amaro nella mia vita mi perdonerai il magone ma ti penso contro sole
e so bene stai guardando il mare un po’ più al largo del dolore e son qui affacciato a questo baule da marinaio
e son qui a guardare tre camicie di velluto due coperte e il mandolino e un calamaio di legno duro
E in una berretta nera la tua foto da ragazza per poter baciare ancora Genova sulla tua bocca in naftalina.
“D’ä mæ riva” brano tratto dall’album “Creuza de ma” del 1984 di Fabrizio De André.