“In nessuna parte d’Italia, né del mondo, si è usata tanto, sino all’abuso, questa pietra (il marmo), preziosa e carissima in altri paesi, ma qui trattata col disprezzo dell’abbondanza fino al punto di servire molte volte per acciottolare le strade (…)
A notte inoltrata, quando l’illuminazione pubblica incomincia a venir meno, queste strade strette, con le loro pareti di marmo che sembrano risalire fino alle stelle che occhieggiano, ricordano al passante le sconvolte gallerie di una cava nella quale il piccone ha tracciato capricciosamente profili e rilievi: alla luce del sole queste ferite sono prodigi d’arte. Le antiche glorie della Repubblica genovese, la potenza che le dettero i suoi marinai e commercianti si rivela in questi grandi palazzi che erano abitati dai patrizi liguri, quelle famiglie che, con intrighi e cospirazioni, si disputavano le cariche di doge o di capitano della Repubblica…. Quarantasette palazzi, tutti splendidi nel loro interno, e tutti di marmo dalle fondamenta all’ultima balaustra, si contano nelle quattro vie che costituiscono la spina dorsale della città.”
Così annotava nel 1896 il celebre scrittore spagnolo Vincente Blasco Ibanez, autore di “Sangue e arena” e dei “Quattro cavalieri dell’Apocalisse”, nei suoi appunti di viaggio durante il suo soggiorno genovese.
Nel corso dei secoli artisti, poeti, viaggiatori hanno raccontato di Genova nelle loro opere; alcuni l’hanno lodata, altri disprezzata, molti amata, ma nessuno come lui.
Al primo gruppo appartengono Petrarca (“Vedrai una città…”), R. Wagner musicista tedesco (che arriva al punto di dire “Parigi e Londra al confronto impallidiscono”), P. Valery poeta francese (che le dedica il tempestoso componimento “La nuit de Genes), A. Cechov novelliere russo (che la definisce “la città più bella del mondo”).
Nel secondo novero si distinguono il sommo Dante (“Ahi Genovesi uomini diversi…”), E. Hemingway scrittore americano che, attraversando l’operosa Sampierdarena in una piovosa giornata, la paragona con spregio ai sobborghi di Manchester, A. Rimbaud “poeta maledetto” che ne lamenta la sporcizia e il degrado dei vicoli.
All’ultimo aderiscono, fra gli altri, E. Montale innamorato dei suoi paesaggi, E. Firpo dei suoi caruggi, C. Sbarbaro delle sue bagasce, G. Caproni dei suoi aromi, F. Nietzche del suo clima, M. Twain dell’eleganza delle sue donne e dell’opulenza dei suoi palazzi.
G. De Maupassant vi ha ambientato un suo romanzo, C. Dickens vi ha tratto ispirazione per uno dei suoi cinque celebri “Racconti di Natale”, il compositore G. Verdi la scelse a lungo come dimora prediletta (soggiornò, fra l’altro, anche nella Villa del Principe), rapito dalle paste, intitolate in suo onore,
“Falstaff”. Potrei continuare a lungo con altri illustri personaggi ma nessuno ha saputo amarla, viverla e comprenderla come F. De André che, prima di andarsene, le ha dedicato il verso più bello, a mio parere, su di lei mai scritto e che racchiude duemila anni di cultura:
“Bacan d’a corda marsa d’aegua e de sa che a ne liga e a ne porta ‘nte na creuza de ma”. Tradotto per i foresti: “Padrone della corda marcia d’acqua e di sale che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare”.
Se tutte le strade, dicevano gli antichi, portano a Roma, a Genova portano al mare.
In Copertina: Creuza di Pieve Ligure. Foto di Cristina Campus.
si raffinano in nessun modo; sono pietre massicce che non si lasciano tagliare”.
“Genovesi non sono affatto socievoli; e questo carattere deriva piuttosto dalla loro estrema avarizia che non da un’indole forastica: perché non potete credere fino a che punto arriva la parsimonia di quei principi. Non c’è niente di più bugiardo dei loro palazzi. Di fuori, una casa superba, e dentro una vecchia serva che fila. Se nelle case più illustri vedete un paggio, è perché non ci sono domestici. Invitare qualcuno a pranzo è a Genova una cosa inaudita…
… Quei bei palazzi sono in realtà, fino al terzo piano, magazzini per le merci. Tutti esercitano il commercio, e il primo mercante è il Doge. Tutto questo rende gli animi della gente assai bassi, anche se molto vani. Hanno palazzi non perché spendano, ma perché il luogo fornisce loro il marmo. Come ad Angers, dove tutte le case sono coperte di ardesia. Hanno tuttavia dei piccoli casini lungo il mare, abbastanza belli; ma la bellezza è dovuta alla posizione e al mare, che non costano nulla. I Genovesi di oggi sono tardi quanto gli antichi Liguri. Non voglio dire con questo che non intendano i loro affari: l’interesse apre gli occhi a tutti …
… C’è una cosa ancora: che i Genovesi non si raffinano in nessun modo: sono pietre massicce che non si lasciano tagliare. Quelli che sono stati inviati nelle corti straniere, ne son tornati Genovesi come prima”.
Probabilmente nelle intenzioni del celebre giurista e filosofo francese questo lapidario giudizio finale non suonava di certo come un complimento, a me invece pare un meraviglioso quanto involontario omaggio alla tenacia dei nostri avi.
Che Montesquieu non provasse simpatia e stima per la nostra stirpe è confermato da altri appunti annotati nel suo “Viaggio in Italia” del 1728:
“C’è sempre un nobile Genovese in viaggio per chiedere perdono a qualche sovrano delle sciocchezze che fa la sua repubblica”.
Addirittura disprezzo per i diplomatici della Repubblica…
“Non c’è stato in Europa che sia stato sottoposto a tanti soprusi come quello di Genova, e che si sia comportato con tanta bassezza nei vari intrighi in cui sia venuto a trovarsi”
E se i genovesi non erano di suo gradimento figurarsi le loro donne di cui lamenta spocchia e superbia…
“I Genovesi sono molto paurosi, anche se orgogliosissimi.
Le signore sono molto altezzose…
… Ed io dicevo che mettere le signore di Genova al rango delle principesse di Francia era come mettere dei pipistrelli sullo stesso piano delle aquile”.
Nemmeno il soggiorno ha soddisfatto il filosofo..
“Io sono stato otto giorni a Genova e mi sono annoiato a morte: è la Narbonne d’Italia. Non vi è nulla da vedere salvo un bel porto, ma assai pericoloso; case costruite in marmo perché la pietra è troppo cara; e degli ebrei che vanno a Messa”…
Insomma la Superba non gli è proprio piaciuta:
“Non è una gran fortuna abitare in questa città. Per prima cosa, il popolo è oppresso da monopoli sul pane, sul vino e su tutti i generi alimentari. È la Repubblica stessa che vende questi generi. La punizione dei crimini è così mal organizzata che risulta minor disgrazia aver ucciso un uomo che aver frodato su un’imposta”.
Certo non si è speso in descrizioni dettagliate, anzi è stato proprio essenziale, ma anch’egli non è rimasto indifferente al fascino della città vista dal mare
“La città, vista dal mare, è molto bella. Il mare penetra nella terra, e fa un arco, intorno al quale è la città di Genova”.
“Genova, aria senza uccelli, mare senza pesci, monti senza legna, uomini senza onore e donne senza pudore.”
Questo proverbio viene erroneamente attribuito a Dante, in realtà è molto più recente e di origine meno nobile.
Il primo che ne dà notizia è lo scrittore russo Sylvester Scedrin che, nel 1829, lo annota fra i suoi appunti affermando di averlo sentito recitare da marinai del posto.
Qualche anno più tardi nel 1837, nelle sue “Memorie di un turista” Stendhal sosterrà di aver fatto proprie queste parole riprendendole da Montesquieu.
Non è chiaro se viaggiatori inglesi, prima ancora di russi e francesi, abbiano udito questo detto dai naviganti genovesi o viceversa.
In ogni caso questo proverbio da lungo tempo fotografa l’asprezza dell’ambiente nostrano.
storia di un celebre scrittore anglosassone… prodigo di ammirazione per le dame genovesi…
“Mi piacerebbe restare qui, preferirei non proseguire oltre.
Può darsi che vi siano in Europa donne più graziose, ma io ne dubito.
La popolazione di Genova è di centoventi mila anime: di queste due terzi sono donne e, almeno due terzi delle donne, sono belle, ben vestite, fini e leggiadre quanto si può senza essere angeli.
Gli angeli però, non sono molto ben vestiti, mi pare almeno quelli dei dipinti; non hanno che ali.
Queste donne genovesi sono incantevoli.
La maggior parte di queste damigelle sono vestite di una bianca nube dalla testa ai piedi, sebbene molte si adornino in una maniera più complicata, nove su dieci non hanno sul capo altro che un sottile velo ricadente sulle spalle a guisa di bianca nebbia.
Hanno capelli biondissimi e molte di loro occhi azzurri, ma più spesso si vedono neri occhi mediterranei e sognanti occhi castani.”
In “Innocenti all’estero” del 1867 questo il dolce ricordo femminile dell’autore delle “Avventure di Tom Sawyer”, Mark Twain.
storia di un poeta, anzi del Poeta romantico… e di un magico notturno genovese…
“Questa città antica senza antichità, raccolta senza intimità e sudicia oltre ogni limite.
È costruita su una roccia, ai piedi di un anfiteatro di montagne che quasi abbracciano il più bello dei golfi.
I Genovesi hanno ricevuto dalla natura il porto migliore e più sicuro.
Poichè, come ho detto, tutta la città è costruita su un unico blocco di roccia, i Genovesi per sfruttare lo spazio, hanno costruito case altissime e strade strettissime, cosicché quelle sono quasi tutte buie, e solo in due di queste può passare una carrozza”.
Così apparve nel 1828 Genova agli occhi del poeta Heinrich Heine, massimo esponente del Romanticismo tedesco.
Ancor più intrigante è la sua visione notturna della città:
“Vista dal mare, specialmente verso sera, la città sembra più bella.
Giace sulla riva come lo scheletro imbiancato di un animale gigantesco vomitato dal mare, formiche nere che si chiamano Genovesi, vi strisciano sopra, onde azzurre lo bagnano e il loro sciacquio sembra una ninna nanna; la luna, occhio pallido della notte, guarda dall’alto malinconica”.
Questa è la nenia più dolce che tu possa sentire….
storia del Divin Poeta, di una stirpe a questi ostile… e di ligustiche ispirazioni…
Fra le numerose tappe del suo lungo esilio, probabilmente nel 1311, Dante fu ospite a Genova e in Liguria.
Qui incontrò l’imperatore Arrigo VII nel quale riponeva le speranze di veder realizzato il suo sogno politico delle due autorità, quella pontificia e imperiale, destinate a sovrintendere le “humanae cose” per il bene comune.
A differenza di quanto accaduto in altre città, Dante a Genova però non si sentì né apprezzato né ben voluto, anzi rivide nelle locali fazioni dei Rampini e Mascherati le stesse scellerate litigiosità dei Guelfi e Ghibellini fiorentini.
Nell’Inferno fra i traditori pose, infatti, Branca Doria ancor vivo, reo di aver fatto a pezzi il suocero Michele Zanchè per impadronirsi dei suoi possedimenti sardi.
Come racconta il Foglietta nei suoi resoconti il Poeta, giunto nella Dominante, “fu solennemente bastonato sulla pubblica via dagli amici e dai servi di Brancaleone.
Da questa offesa, non potendo il Sommo, vendicarsi con le mani, si vendicò con le parole e la penna”.
Da qui la celebre invettiva scolpita nel Canto XXIII dell’Inferno, versi 151-153:
“Ahi Genovesi, uomini diversi
d’ogne costume e pien d’ogni magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?”.
Il “Ghibellin fuggiasco” prende inoltre a modello, dopo averla attraversata entrandovi da Lerici, l’aspra nostra terra, per descrivere la montagna del Purgatorio:
“Tra Lerice e Turbia la più diserta,
la più rotta ruina è una scala,
verso di quella, agevole ed aperta”.
(Canto III del Purgatorio, verso 49-51).
Proseguendo verso Genova Dante s’imbatte infine nella splendida foce del fiume Entella così descritta:
“Intra Siestri e Chiaveri s’adima
una fiumana bella….”
(Canto XIX del Purgatorio, versi 100-101).
Già da tempo ormai Genova aveva mutato la sua vocazione marittima dal periodo in cui era detta la Dominante, a quella finanziaria della Superba ma la sua primaria caratteristica era rimasta ancora intatta:
“… l’abilità nautica di Genova è tenuta in tale reputazione e stima in tutto il mondo che i Genovesi sono detti signori del mare”.
Questo il commento nel 1502 nelle “Cronache del Regno di Luigi Xll” di Jean d’Auton, annalista, religioso e scrittore, al seguito del Re in visita a Genova.
le vibranti rime di “Liguria” composte da un ispirato Camillo Sbarbaro.
Scarsa lingua di terra che orla il mare,
chiude la schiena arida dei monti;
scavata da improvvisi fiumi, morsa
dal sale come anello d’ancoraggio;
percossa dalla fersa; combattuta dai venti che ti recano dal largo
l’alghe e le procellarie;…
ara di pietra, tra cielo e mare,
levata dove brucia la canicola
aromi di selvagge erbe.
Liguria,
l’immagine di te sempre nel cuore,
mia Terra, porterò.
Alcuni tratti del carattere genovese si sono plasmati nel corso dei secoli, scolpiti nella pietra, modellati dal vento e intrisi di mare.
Chi meglio degli “illustri foresti” che nel tempo hanno avuto modo di conoscere la nostra pragmatica rudezza, può descrivere queste peculiarità?
“I tiranni sono levati al potere a voce di popolo e per la sua volontà,
ma senza alcuna giustificazione legale.
Infatti di solito avviene che quando un gruppo politico prevale sull’altro,
allora quelli che ne fanno parte, inorgogliti dal successo, si mettono a gridare – Viva il tale, Viva il tale, muoia il tal altro.
E quindi eleggono uno tra essi e uccidono, se non riesce a fuggire, chi prima comandava.”
Così scriveva, a proposito del nostro concetto di governo, nei suoi resoconti il Maresciallo di Francia e Governatore di Genova Jean Le Meingre.
Questi, meglio noto come Boucicault fu, fra l’altro, promotore del Banco di S.Giorgio
nella sua moderna veste bancaria.