“Le acciughe fanno il pallone che sotto c’è l’alalonga, se non getti la rete, non te ne lascia una, non te ne resta una”. F. De André.
Categoria: Curiosità in tavola
La leggenda della pizza di Andrea…
Nella versione originale nata nel ‘400 la “Pizza di Andrea”, “Piscialandrea”o “Pissaladiera” era una focaccia cotta in tegame, ricoperta di acciughe distese su uno strato di cipolle.
In seguito fu arricchita di altri ingredienti come il pomodoro (proveniente dal Nuovo Mondo), l’origano, i capperi e le olive (fra cui le odierne taggiasche) liguri della riviera.
Questa, secondo la leggenda, sarebbe la versione cara all’ammiraglio Andrea Doria.
- 400 g di farina 00
• 15 g di lievito di birra fresco
• 150 ml di latte
• 2 cucchiai di olio d’oliva
• sale q.b.. 1 kg di pomodori pelati
• 2 cipolle
• 100 g di acciughe sott’olio
• 100 g di olive - . 1 spicchio d’aglio ed una manciata di capperi dissalati.
Nel corso dei secoli in tutto il ponente, Francia compresa, si sono diffuse numerose varianti, la più celebre delle quali è la “Sardenaira” sanremese, nota anche con il nome di “focaccia o pizza di Sanremo”.
A Ventimiglia “Pisciadèla, nel nizzardo “pissaladiera”, pissaladière in Francia.
Per quanto affascinante sia, va detto che la vicenda legata ad Andrea Doria non ha alcun fondamento.
Non esistono infatti documenti storici che attestino la predilezione di Andrea per questo piatto. Secondo i linguisti la genesi del termine non avrebbe dunque nulla a che fare con la fantasiosa associazione. Il vocabolo “pissaladiera, pissaladiėre” deriverebbe dal nizzardo “pes (o pis) salat”, pesce salato che sarebbe quindi, con buona pace della suggestiva versione legata al grande onegliese Principe di Melfi, l’interpretazione corretta.
In Copertina: la Sardenaira. Foto e preparazione di Yurick Balbo.
“A Cimma”…
Così comincia la canzone di Fabrizio De André dedicata a questo tipico piatto genovese:
Traduzione: “Ti sveglierai sull’indaco del mattino quando la luce ha un piede in terra e l’altro in mare ti guarderai allo specchio di un tegamino il cielo si guarderà allo specchio della rugiada metterai la scopa dritta in un angolo che se dalla cappa scivola in cucina la strega a forza di contare le paglie che ci sono la cima è già piena e già cucita…
Una pancia di vitello che cucirai (come si faceva per i materassi) .
Attenzione la sacca non deve avere venature o tagli, dopo cucita riempila d’acqua e vedi che non ci siano perdite è importantissimo. Se la pancia di vitello è integra e le cuciture valide, il problema non esiste, mi raccomando è meglio un uovo in meno che uno in più.
La pancia di vitello che cucirai (come si faceva per i materassi) lasciando un’apertura di dieci cm. dev’essere un rettangolo all’incirca di 26 x 18cm (per 5/6 uova) a volte i macellai la cuciono loro.
Preparazione: tagliare la carne a pezzetti e farla rosolare nel burro.
In una terrina mettere le uova, sbatterle (non troppo) aggiungere: la carne, la cervella ridotta a pezzetti, il formaggio grana, i pinoli, la carota a pezzetti, la lattuga, i piselli, la maggiorana (la pèrsa lègia) e l’aglio, il sale il pepe, amalgamare il tutto (se sei solito farlo assaggia).
Importante riempire la cima sino a tre quarti non di più, anzi qualcosa in meno, sennò scoppia.
Cucire la parte aperta, lavarla sotto il rubinetto e metterla in un piatto.
Mettere la cima a cuocere in una pentola (molto capiente) con acqua e sapori, (carota, sedano, cipolla) a freddo, ogni tanto girarla, appena prende il bollore spegnere e lasciare riposare cinque minuti poi riaccendere e falla cuocere a fuoco lento, (dev’esserci sempre il bollore) per almeno un’ora e mezzo o due, controllala spesso e girala, attenzione a non romperla, se vedessi che esce dalle cuciture del ripieno, niente panico, toglila dall’acqua prendi un canovaccio avvolgila e legala, poi la rimetti a cuocere.
Quando è cotta dopo almeno un’ora e tre quarti la punzecchi con un ago.
La togli dall’acqua con cautela, (vedrai sarà un pallone oblungo) la adagi su di un tagliere sul lavandino metti sopra un altro tagliere o un piatto piano (meglio un tagliere) e sopra metti dei pesi.
Io metto una pentola con acqua, oppure una pentola con dentro un mortaio di marmo, la cima si deve compattare, dentro non deve esserci più aria in modo da poterla tagliare a fette senza che si sbricioli), devi “caricare” la cima in modo che si riduca di molto e praticamente butti fuori i liquidi (pochi) e si appiattisca, per poterla poi tagliare.
Falla il giorno prima, magari alla mattina, la lasci in carico due o tre ore, il tempo necessario, poi la avvolgi in un tovagliolo bianco bagnato e strizzato e la riponi in frigo.
Ecco fatto la cima è pronta da gustare. Spero di esser stata chiara, questo è il metodo che faccio io e che fa mia madre e poi mia nonna.
Se la fai così per filo e per segno, vedrai che ti verrà bene…
Ricetta e procedimenti di un’anziana cuoca genovese che non c’è più.
Curiosità in tavola
"A Cimma"...
"A me le torte di Zena"...
"Cacao Meravigliao..."
"Intu mezu du ma... gh'è 'n pesciu tundu..."
"Mangi la sbira... e poi muori"...
"Quattro amici al bar"...
"Se piace al Padrino..."
"U vin giancu de Cônâ"...
"Voglia di gelato"...
A fugàssa
Chiamatela Panélla...
Ciupin
Coniglio alla ligure
Focaccette e focaccia di patate
Frittelle di San Giuseppe
Fritto Misto alla Genovese
Fru fru
Gli Sgabei
I Barbagiuai
I Biscotti del Lagaccio...
I Cavulin
I Corzetti...
I Gattafin
I Muscoli
I Natalin
I Panigacci
I Pesci saê
Il Bagnùn de Ancioe
Il Canestrello prezioso quanto una moneta
Il carciofo di Napoleone
Il mio nome è Magro... Cappon Magro...
Il pesce alla ligure
Il Pesto di Pentema l'antenato di quello genovese
L'Asinello l'aperitivo corochinato.
La frittata di Rossetti
La Genovese partenopea
La leggenda della pizza di Andrea...
La Mostardella
La Pànera il semifreddo dei genovesi
La Prescinsêua...
La trippa alla genovese
Le acciughe...
Le Genovesi di Erice
Le lattughe ripiene
Le Sciamadde
Le Tomaxelle
Lo Sciachetrà...
Mandilli de saea...
O Baxeichito
O Læte doçe. (Il Latte dolce).
Per Buglione e per i pansoti...
Quaresimali e Cavagnetti
Röba pinn-a
Storia del "rovigliolo" (raviolo)...
Storia del pandolce...
Storia della "Gattafura" (la torta pasqualina) ...
Storia della focaccia recchelina...
Storia di un assedio...
Storia di un monopolio...
Storia di una piantina regale...
Storia di una tempesta, di un naufragio...
Tortino di acciughe alla maniera di Vernazza
U Tuccu
Storia di un assedio…
Da Aprile a Giugno la Superba, posta sotto un estenuante assedio è difesa coraggiosamente dal generale nizzardo André Massena.
I generi alimentari vengono così razionati e si dà fondo alle ragguardevoli scorte di riso per, mischiandole con farina di grano, ricavarne del pane.
A Parigi intanto, in Rue Saint Honoré, il celebre pasticcere Chiboust, inventore della torta che dalla Via prende il nome, impressionato dall’eroica resistenza del connazionale, decide di omaggiarne l’impresa.
Crea un dolce simile al Pan di Spagna, chiamandolo Pan genoise.
Da questa base, con l’aggiunta di creme e farciture liquorose, sarebbe nata, a Genova nel laboratorio di Piazza Portello, brevettata poi nel 1875, la Sacripantina della Pasticceria Preti.
All’origine dell’impegnativo nome invece, sarebbe la vicenda amorosa del re circasso Sacripante, innamorato della bella Angelica, personaggio, prima dell’Orlando Innamorato del Boiardo e poi di quello Furioso, dell’Ariosto.
Storia del pandolce…
Dati gli ingredienti comuni, molti ne fanno risalire l’origine addirittura ai tempi dell’antico Egitto e della Grecia dove era diffuso un dolce simile a base di miele.
Sicuramente, visti i rapporti commerciali con quel Paese, i Genovesi potrebbero aver tratto ispirazione dalla Persia (basti pensare a maggiorana, “persa” in genovese) dove il suddito più giovane (in grado di camminare), all’alba di Capodanno, porgeva al Sovrano un grande pane dolce a base di canditi, miele e mele da dividere fra i suoi commensali.
In effetti anche a Genova il pandolce, chiamato anche Pan co-o zebibbo veniva portato in tavola dal più giovane della famiglia e, con gesto beneaugurante, privato del sovrastante ramoscello di alloro.
Fu l’ammiraglio Andrea Doria che, nel ‘500, indisse concorso fra i pasticceri locali, per creare un dolce degno del matrimonio del nipote con Zanobia del Carretto e del prestigio della Repubblica.
Così venne codificato il pandolce genovese nella versione alta, affiancato poi, qualche secolo più tardi, dalla moderna versione bassa.
Molti sorrideranno di questa affermazione ma, a quel tempo, tolto forse Venezia e Bisanzio odierna Istanbul, non erano molte le città in Europa sulle cui tavole si potevano gustare canditi, uvetta e frutta secca.
Secondo la tradizione il Capofamiglia affettava il panduce canticchiando una filastrocca:
“Vitta lunga con sto’ pan!
Prego a tutti tanta salute,
comme ancheu, anche duman,
affettalu chi assettae,
da mangialu in santa paxe,
co- i figgeu grandi e piccin,
co- i parenti e co- i vexin,
tutti i anni che vegnia’,
cumme spero Dio vurria’.”
Alla moglie spettava l’assaggio e poi veniva distribuita una porzione per ciascun invitato, dopo di ché, visionate le letterine dei pargoli, gli stessi, in piedi sulla sedia, recitavano la loro poesia.
Due fette però venivano accuratamente conservate a parte da offrire una, al primo viandante di passaggio, da consumarsi l’altra, il 3 febbraio festa di San Biagio, protettore della gola.
Il Pandolce genovese, a seconda del Paese in cui è consumato, ha assunto altri nomi:
dal nostrano “Pan do bambin” sanremese, al “Londra cake” o “Genoa cake” britannici, fino al “Selkirk bannock”, una versione scozzese molto apprezzata dalla Regina Vittoria.
Quanta cultura in un semplice…. Panduce..
In Copertina: il Pandolce di una super bis nonna Lorenza che non c’è più.
Storia di una tempesta, di un naufragio…
Storia di un monopolio…
“A pestun cua sa”, così si chiamava il composto farinaceo mischiato con il “sa pesta”, nel corso dei secoli sempre più divenne il cibo dei genovesi, al punto che persino i matrimoni venivano scanditi in chiesa dal crocchiare della focaccia, offerta dagli sposi.
Nel ‘500 fu il Vescovo Matteo Rivarola, indispettito dal fatto che distraesse l’attenzione dei fedeli, a proibirla, pena la scomunica.
Nel frattempo Genova prima e il Banco di San Giorgio poi, avevano acquisito il monopolio del sale.
I grandi magazzini del porto franco non bastavano più a contenere l’indispensabile minerale così iniziarono a proliferare le Sciamadde (“fiammate”) dove, appunto, oltre a preparare farinate e torte salate, si poteva cuocere e vendere anche la fugassa (sale sul fuoco).
Storia della “Gattafura” (la torta pasqualina) …
Questa torta salata veniva preparata per la festa pasquale rivestita, secondo la tradizione, di ben trentatré strati (pieghe) di sfoglia, in omaggio agli anni di Cristo.
Ne esistevano almeno un paio di varianti ma l’originale, anche se in molti pensano il contrario, non prevedeva i carciofi, bensì le bietole perché più economiche e facilmente reperibili presso le besagnine, rispetto alle più costose, perché fuori stagione, articiocche (carciofi).
Ancora oggi, nelle ormai rare Sciamadde, cosi come sulle tavole della festa, non può mancare, per resuscitare gli appetiti, la Regina delle torte salate.
Storia del “rovigliolo” (raviolo)…
… del Paese della Cuccagna… di un poeta goliardico e… di un nostalgico musicista…
Già nel 1100 una pasta che conteneva un “roviglio” (ripieno) era patrimonio comune sulle tavole dei genovesi. Notizie certe sulla sua genesi, basate su fonti storiche, non ne risultano; molte località del Genovesato, di conseguenza, ne rivendicano la paternità.
Una delle versioni più diffuse è quella che ne farebbe risalire l’origine alla famiglia “Ravioli” di Gavi Ligure che, per prima, avrebbe proposto il succulento piatto. Nel ‘200, complice le fiere e i mercati del Piacentino e dell’Astigiano, il raviolo si sarebbe poi diffuso oltre l’Appennino, nel parmense con il nome di “tortello” e in Piemonte con quello di “agnolotto”.
Le prime tracce in ambito letterario risalgono al ‘300 quando nel suo celeberrimo “Decamerone” il Boccaccio lo cita fra le leccornie nella novella sul Paese della Cuccagna in cui il protagonista Calandrino racconta: “… stava genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e ravioli e cuocerli in brodo di Capponi e rotolano da una montagna di formaggio grattuggiato”. Raviolo in brodo certo, o cotto nel vino ma per me, come per il “Signore del violino”, la versione più appetitosa risulta essere quella condita con il “tuccu” (ragù alla genovese). In una lettera del 1839 di risposta ad un amico, infatti, Paganini ormai prossimo alla morte lontano dalla sua Genova, descrive minuziosamente la ricetta per preparare i ravioli e del “tuccu” con il quale si raccomanda di condirli.
Ecco perché il Raviolo è musica inarrivabile per il nostro palato!
In copertina: ravioli di una nonna di Murta.