A fugàssa

Mi raccomando, soprattutto per i foresti, la focaccia va gustata con la parte sapida e croccante rivolta verso la lingua.

Se volete poi confondervi fra gli indigeni inzuppatela nel cappuccino, non ve ne pentirete.

Buona in qualsiasi momento della giornata, soprattutto se appena sfornata, io la preferisco accompagnata al tradizionale gotto (bicchiere) de gianco (vino bianco), familiarmente chiamato “gianchetto”.

Ma quando si parla di Genova a tavola Vito Elio Petrucci meglio di chiunque altro padroneggia l’argomento!

Concordo con il maestro anche a me piace in qualunque forma ma quella che prediligo è senza dubbio quella al formaggio di Recco.

A fugàssa

Mi són sentimentâle fìnn-a in fóndo
e fàsso l’êuio cómme o papê de stràssa;
són inamoòu de Zêna, ciù do móndo,
ma ò ‘n balìn inta tésta: o l’é a fugàssa.

“È più forte di me”, mi me-o confèsso!
Scioâ, co-o cròcco e co-a sâ a màn bàssa …
l’oexìn ben vónto, o mêzo bèllo spésso.
O mæ Michê a l’é lê: Sànta Fugàssa.

O mâ o m’incànta, o ségge bolezùmme,
fæto de mòuxi o ciàtto pe-a bonàssa;
ànche se a vòtte o sa de refrescùmme
(a spùssa de l’erzìlio), ma a fugàssa!

Il grattacielo? è bello da vedere;
e De Ferrari? ‘Na gràn bèlla ciàssa;
Scuâia, Canétto, Rìghi, Belvedêre …
cöse pe-i éuggi! Ma pensæ: a fugàssa!

Me l’aséunno de néutte e pöi m’adéscio
che pèrdo e bâve cómme ‘na lumàssa.
Chi à coràggio me dìgghe che són néscio,
mi ghe dìggo de sci … e tétto fugàssa.

E vi dirò di più, fo paragoni
con l’amîgo do tàcco ch’o stronbàssa,
quello che fa la pizza e i cannelloni.
Duxénto pìsse no fàn ‘na fugàssa.

E se dìggo fugàssa e-e dìggo tùtte,
no fàsso distinçión tra màgra e gràssa,
co-o formàggio, co-a çiòula: Bócche mùtte!
Pe mì va tùtto bén, s’a l’é fugàssa.

Dòmmo a Milàn, Venésia con Sàn Màrco,
Lantèrna a Zêna, Savónn-a a Canpanàssa,
Sàn Rémmo o zêugo, a Spézza l’Arsenâ
e mi ‘n sciô stémma véuggio ‘na fugàssa.

Mi són sentimentâle, me comêuvo
s’à l’é co-a çiòula, e brìndo con vinàssa
s’a l’à o formàggio, e me ghe pèrdo aprêuvo …
a l’amîga, a conpàgna, a ti: fugàssa!

Poesia di Vito Elio Petrucci (1923-2002). Poeta e commediografo genovese.

Io sono sentimentale fino in fondo
  e faccio l’olio come la carta di stracci,
 sono innamorato piu’di Genova che del mondo,
 ma ho un “pallino” in testa:

e’ la focaccia!     

  È più forte di me, me lo confesso!
 soffice, col bordo croccante, col sale, a volontà,
 l’orlo ben oleato, al centro bella spessa !
  o mio Michele, e’ lei:

santa focaccia!     

 Il mare mi incanta, che sia increspato,
 fatto di ondate o piatto per la bonaccia,
 anche se a volte sa di salsedine
 (la puzza delle alghe)

ma la focaccia!     

  Il grattacielo? è bello da vedere,
  e De Ferrari? una gran bella piazza;
  Scuaja? Cannetto? Righi? Belvedere ?
  cose per gli occhi! Ma pensate,

alla focaccia!     

  Me la sogno di notte e poi mi sveglio
  che perdo le bave come una lumaca.
  Chi ha coraggio mi dica che sono scemo,
  io gli dico di sì,

e mangio focaccia!     

  E vi dirò di più, faccio paragoni
  con l’amico meridionale che strombazza,
  quello che fa le pizze con i calzoni.
  Duecento pizze non fanno

una focaccia!     

  E se dico focaccia le dico tutte,
  non faccio distinzione tra magra, grassa,i
  con il formaggio con la cipolla: bocche mute
  per me va tutto bene

se è focaccia!     

  Duomo a Milano, Venezia con San Marco,
  la Lanterna a Genova, la Campanassa a Savona,
  San Remo il gioco, a Spezia l’Arsenale,
  e io sullo stemma voglio

una focaccia!     

  Io sono sentimentale e mi commuovo
  se è con la cipolla e brindo con il vino
  se ha il formaggio.Ma è il momento di tacere.
  Chiedo vegna.

Sono quello della focaccia!     

e ancora a proposito di quella della Marinetta tipica di Voltri scrive:

A Fugàssa da Marinetta

A coa d’eujo a fugassa da Marinetta 
e a scrosce allegra sott’a-i denti 
feuggia a-a primma canson. 
Gh’è Utri, Zena, 
a Liguria e o mondo; 
e a coae de voeine ancon. 
In ta goga mollann-a 
a grann-a da sa 
a l’é na perla da collann-a.

La Focaccia della Marinetta

Cola d’olio

la focaccia da Marinetta

e scrocchia allegra sotto i denti

come foglia (autunnale) alla prima canzone (del vento).

C’è Voltri, Genova,la Liguria

 e il mondo;

e la voglia di volerne ancora.

Nel buchetto soffice

il grano di sale

è una perla della collana.

In Copertina: La focaccia sul mare. Foto tratta da Liguria 2020.

Poesie di Vito Elio Petrucci. (1923-2002). Poeta, commediografo, giornalista, cultore delle tradizioni genovesi.

Coniglio alla ligure

Lo so il coniglio alla ligure, piatto tipico del ponente della regione, andrebbe cotto in un classico tegame (tian) di coccio.

Purtroppo però i fornelli ad induzione della mia cucina non mi permettono di seguire tale sacrosanta disposizione e mi sono dovuto così adattare ad utilizzare un moderno tegame di acciaio.

Di questa ricetta non si hanno particolari riferimenti storici ma, essendo legata alla cultura contadina dell’entroterra, è cucinata un po’ ovunque, in paricolare tra le province ponentine di Imperia e Savona.

Oltre al coniglio, protagonista del piatto è la tipica oliva taggiasca il cui inconfondibile gusto amarognolo ben si sposa con gli altri aromi (timo, aglio, rosmarino e pinoli) conferendo alla vivanda il suo armonico gusto.

Ricetta e preparazione variano di famiglia in famiglia.

L’importante comunque, prima di aggiungere il vino per la sfumatura, è farlo rosolare bene a fiamma vivace stando attenti che non si attacchi o bruci.

Dettaglio non da poco infine è la scelta del vino da utilizzare sia in cottura che come abbinamento durante il pasto:

Rossese di Dolceacqua all’estremo Ponente, Ormeasco in Alta Valle Arroscia, Rossese di Campochiesa o Pigato (seppur bianco) lad Albenga e nella sua Piana.

Io ho scelto in ricordo di Dolceacqua dove l’ho assaggiato la prima volta tanto tempo fa, l’omonimo Rossese.

Coniglio alla ligure

  • 1 coniglio (da circa 1,5 Kg)
  • 1 cipolla
  • 2 spicchi d’aglio
  • 1 bicchiere di vino rosso
  • 100 gr olive taggiasche o della Riviera
  • 6 rametti di timo
  • 2 rametti di rosmarino
  • 2 foglie di alloro
  • 20 gr pinoli
  • Olio di oliva evo ligure
  • Sale
  • Pepe Nero macinato

Pane e pancogoli genovesi

A partire da fine ‘500 fino al ‘800 la Repubblica di Genova aveva riservato per sé il compito di produrre in esclusiva il pane.

Nel ‘300 i fornai chiedevano per ogni quarto di mina (mina, unità di peso equivalente a circa 100 kg) quattro denari e mezzo in inverno e cinque in estate e due soldi e mezzo per una mina intera.
Curioso il metodo di lavorazione: l’impasto veniva depositato a terra su sacchi lungo una trave che si trovava in alto e sopra la quale si facevano passare delle corde, da uno degli estremi fissate, dall’altro pendenti.

Ad esse si tenevano con forza i lavoranti che con i piedi ricoperti da apposite calze impastavano la farina a sua volta ricoperta da sacchi come quelli sottostanti.

Più che la lievitazione del pane al Comune premeva invece, per non fomentare il malcontento interno, quella dei prezzi.

Persino Colombo in una delle due lettere indirizzate nel 1504 al Banco di San Giorgio se ne preoccupava dando precise indicazioni al figlio Diego di versare annualmente a Genova la decima parte della rendita che avrebbe ricavato dai suoi redditi e privilegi, in sconto delle gabella sul grano, sul vino e su altre provviste che gravavano sul popolo.

Interno dell’atrio di palazzo San Giorgio con l’elenco delle gabelle per le singole merci. Sotto cinque cassette per il mugugno ai Magistrati del 1444, ai Magistrati del Sale, ai Revisori, ai Procuratori e ai Protettori.

Nel 1531, causa una grave carestia, si innescò una forte speculazione sul commercio delle granaglie e così i collegi, per garantire il pane a prezzi calmierati, istituirono dei forni pubblici.

Nel 1590, conseguenza di un’ulteriore pesante siccità che distrusse i raccolti dalla Spagna al Levante, il costo dei grani subì un nuovo forte aumento. Il Banco di San Giorgio, per far fronte alla crisi, concesse allora prestiti quasi gratuiti e si accollò le perdite dei forni.

A causa della penuria di grano si stabilì con un decreto che le navi che portavano grano a Genova godessero del privilegio del portus immuni, ovvero del porto franco“. (G. Giacchero 1984).

Gli uffici del Comune e il magistrato dell’Abbondanza ricevettero in seguito continue lamentele per la pessima cottura e la bassa qualità delle farine utilizzate.

Questa tipologia di pane, venduto a prezzo politico, proprio per la sua scadente qualità, fu chiamato pane da cavallotto, ovvero da quattro soldi.

I forni genovesi quindi erano in origine attigui al Portofranco ma vennero spostati per permettere di ingrandire lo stesso ed anche per allontanare il fuoco, pericoloso per le altre mercanzie.

Per questo con decreto del 18 agosto 1722 venne data la possibilità di costruire nuovi forni a Castelletto.

Contribuì alla spesa di nuovo il Banco di San Giorgio, elargendo lire centoventimila di “numerata valuta” e lire duecentomila di “moneta corrente”. La nuova fabbrica, ricca di acqua, fu installata e terminata in periodo di dominazione francese.

I fornai, detti pancogoli, applicavano con un ferro rovente un marchio per contrastare le frodi.

Ad esempio si ha traccia di un curioso documento in cui un fornaio tal Simone annota fra le spese sostenute l’acquisto di un marchio “Pro signandis fugaciis”. La focaccia già a quel tempo era dunque tutelata.

Nel 1839 il Comune, considerato l’elevato costo di produzione, rinunciò al suo monopolio e concesse in appalto ai fornai la fabbricazione del pane. Si stabilì che il prezzo del pane venisse fissato secondo il valore del frumento.

Ancora oggi nei pressi della Maddalena, alle pendici del monte Albano, restano i toponimi di Vico dei Fornai (oggi soppresso), Piazza dietro i Forni e Salita dei Molini a testimoniare l’antica vocazione della zona.

A chi ha famme, o pan o ghe pá lazagne“. Proverbio genovese. Traduz. “A chi ha fame, il pane sembra lasagne”.

In Copertina: La Preparazione del pane. Dal Theatrum sanitatis. Codice miniato del XIV secolo.

Ciupin

Ogni regione italiana affacciata sul mare presenta in tavola la propria versione della zuppa di pesce. Forse il caciucco livornese, il brodetto alla vastese abruzzese o quello fanese marchigiano e il ciambotto pugliese ne costituiscono gli esempi più conosciuti.

In Liguria esistono addirittura due preparazioni di zuppa di pesce: il Ciupín (o Ciuppín) e la Buridda che differiscono sostanzialmente solo per l’aggiunta di carciofi o piselli nel caso della buridda e per la consistenza dell’intingolo, più simile nel Ciupín, ad un passato.

Il termine ciupin desunto dall’ ispano americano “chupín” sta ad indicare infatti cibo a base di patate, pomodoro e pesce, cotto nel vino bianco che, a sua volta, deriva dal verbo “chupar” succhiare, sorbire.

Il vocabolo Buridda invece deriva addirittura da un termine della lingua araba che può essere tradotto come “pezzi” o “pezzetti“. Difatti, il pesce nella Buridda Ligure è presente in piccoli bocconi.

La mia zuppa di pesce. Foto e preparazione dell’autore

Tornando al Ciupín guarda caso i paesi dove questa preparazione è assai nota sono proprio Argentina e Uruguay, terre in cui l’incontro degli emigranti genovesi con le popolazioni locali ha prodotto un reciproco influsso e arricchimento sia culturale che gastronomico.

Curioso poi che da questi territori questo cibo si sia diffuso più a nord in California dove il Ciupín o cioppino, originario proprio della comunità di pescatori liguri che a partire dalla seconda metà del ‘Ottocento frequentavano la baia di San Francisco, sia diventato piatto tipico.

Infatti nostante si creda che cioppino, il termine usato per indicare il piatto negli States, provenga dal termine inglese “chip-in“, che significa “contribuire” e che veniva utilizzato dai pescatori di San Francisco quando elemosinavano il cibo, la parola deriva in realtà dal ligure “ciuppìn“, che può indicare al contempo una “piccola zuppa” oppure il tagliare a pezzetti degli avanzi di cibo che servivano a preparare lo stufato.

La ricetta originale del ciuppin ligure prevede: scorfani, gallinelle, rane pescatrici, gronghi, seppie e crostacei insaporiti con pomodori, cipolle, aglio, vino, e prezzemolo tritato. Il piatto viene in genere servito con gallette del marinaio o del pane abbrustolito.

Nella versione di San Francisco, il cioppino è uno stufato di pesce e salsa di pomodoro ricavato con il pescato del giorno, fra cui granchi, vongole, gamberi, capesante, cozze, calamari e pesci della costa del Pacifico, condito con pomodori freschi e salsa di vino. Anche qui Il cioppino può essere accompagnato con pane tostato o con una baguette. Durante la preparazione, i frutti di mare sono cotti nel brodo e serviti ancora nel guscio.

  • Pesci di scoglio misti: un chilo
  • Un bicchiere d’olio extra vergine d’oliva
  • Un ciuffo di prezzemolo
  • Una cipolla media
  • Due acciughe  salate
  • Tre pomodori perini maturi
  • Un bicchiere di vino bianco secco
  • Sale
  • Quattro fette di pane casereccio

In Copertina: Il Ciupín. Foto tratta da Zenet Zeneixi e liguri nel mondo.

O Baxeichito

Al civ. n. 17 di vico Denegri si trova una delle più antiche osterie di Genova e d’Italia.

Una volta si chiamava Osteria della Colomba ed era una delle più frequentate della zona portuale.

Qui la notte del 3 febbraio 1834 pernottò Giuseppe Garibaldi in procinto di dichiarare, prevista per il giorno dopo, l’insurrezione popolare.

Smascherato il suo proposito riuscì, sfuggendo alla cattura grazie all’aiuto dell’ostessa Caterina Boscovich, a riparare nella natia Nizza in attesa di tempi migliori.

La taverna, come amano chiamarla i suoi avventori abituali, nel secolo scorso per decenni era nota, dal nome del suo istrionico proprietario, come Osteria Picetti.

Per noi ragazzi in quegli anni ’90 era una tappa d’obbligo per ascoltare musica dal vivo e soprattutto sorseggiare il baxeichito.

Il baxeichito è un cocktail a geniale imitazione del celebre mojito cubano dal quale si differenziava per la sostituzione della menta con il basilico.

– 5 cl Rum bianco
– 2.5 cl succo di lime
– 2 cucchiaini di zucchero di canna
– 5/6 foglie di basilico
– acqua gasata (o acqua di Seltz o soda).

Foto di Francesco Pizzetti.

Scomparso Gigi il 7 dicembre scorso il compito di portare avanti la tradizione dell’Ostaia de’Banchi spetta ai due nuovi timonieri Stefano e Sergio.

“E desgrazie son de lungo pronte comme e töe de ostaie”. Proverbio Genovese.

In Copertina: interno dell’Ostaia. Foto di Armando Farina.

Febbraio 2023

Gli Sgabei

Per raccontare questo semplice piatto sconfino nello spezzino dove gli sgabei costituiscono, sia nella Val di Magra che nella Lunigiana, una pietanza povera e tradizionale.

Gli sgabei sono delle soffici frittelle di pasta di pane lievitata. Si possono gustare al naturale o farcite e/o accompagnate con formaggi e salumi.

Da non confondersi con i panigacci da cui questi ultimi differiscono per il tipo di cottura in appositi testi, secondo i puristi gli sgabei vanno serviti tagliati a striscioline.

Sgabei. Foto di Armando Pittaluga.

Nati come antipasto vengono proposti anche come aperitivo o reinventati, imbottiti di cioccolata o crema pasticcera, come dolce.

Sgabei pronti da cuocere. Foto e preparazione di Sara Drovandi.
  • Pasta di pane  lievitata 500 gr.
  • Olio extravergine d’oliva
  • Foglie di salvia (opzionale)
  • Sale
  • Impastate la pasta con l’olio. Formatene dei pezzetti grossi come noci e allargateli con le dita creando delle vere e proprie striscioline. Sopra ognuno di essi andate a porre delle foglie di salvia, premendole un poco. Noi vi proponiamo questa versione che prevede la salvia, ma la tradizione rimanda anche a sgabei frittelle di pasta  al naturale. A questo punto rimettete a lievitare per circa un’ora. Friggete in olio caldo e salate, successivamente.

In Copertina: Sgabei. Foto e preparazione di Sara Drovandi.

Il carciofo di Napoleone

Perinaldo è un grazioso borgo medievale in provincia di Imperia, famoso per aver dato i natali a Gian Domenico Cassini, illustre scienziato (matematico e astronomo), membro dal 1668 dell’Accademia delle Scienze di Francia e Direttore del primo Osservatorio Scientifico di Parigi.

Perinaldo gli ha intitolato il locale Osservatorio scientifico e Genova, dove ha studiato presso il collegio dei Gesuiti, il più prestigioso liceo scientifico cittadino.

Ritratto di Cassini con gli strumenti della sua disciplina

Ma Perinaldo si distingue anche per la coltivazione di un particolare tipo di ortaggio assai apprezzato e rinomato per le sue proprietà e caratteristiche:

un carciofo, tenero, senza spine e dal peculiare colore violetto.

Si prepara in insalata, abbinato a carni o selvaggina, protagonista di frittatine, al forno con parmigiano e funghi o in semplici frittelle con aglio e prezzemolo.

Ma a mio modesto parere il modo in cui le sue qualità vengono valorizzate al meglio è gustato crudo in pinzimonio o in carpaccio.

Si narra che che ad importare questo carciofo sia stato un generale francese dell’esercito napoleonico, secondo alcuni addirittura Napoleone stesso in persona.

Costui durante la campagna d’Italia nel 1796 scoprì, ospite di una nobile famiglia di Perinaldo, che i carciofi “violet” della vicina Provenza erano sconosciuti e decise quindi di donarne alcune piantine agli abitanti del borgo in modo che potessero coltivarlo.

Così complice il clima favorevole il carciofo provenzale ha trovato a Perinaldo il suo ambiente ideale.

Non è un caso quindi che in lingua genovese, dal francese artichaut, il carciofo venga chiamato articiòcca.

In Copertina: il carciofo di Perinaldo. Foto degli Allevatori e Aziende agricole di Perinaldo.

I Panigacci

Quando mi trovo nella sede delle mie vacanze estive a Deiva Marina (Sp) è d’obbligo una tappa in Lunigiana per gustare i panigacci, un piatto che ben si presta alla convivialità a tavola.

I panigacci infatti sono tipici della Lunigiana e del levante ligure dove prendono il nome di Panigazzi. Sono originari delle località di Podenzana (Ms) in Toscana e di Bolano (Sp), in Liguria.

Sono realizzati con acqua, farina e sale e si preparano mescolando gli ingredienti fino a ottenere una pastella fluida. Tale pastella viene quindi versata nei testi, precedentemente lasciati arroventare su di un fuoco vivace, tipicamente in un falò o in un forno a legna.

Quando sono roventi al calor bianco, vengono estratti dal forno e fatti raffreddare un poco poi viene fatta una pila di testi, in modo tale che stando nel mezzo la pastella si cuocia sui due lati.

I panigazzi così cuociono in pochi minuti a temperature molto alte e non necessitano di lievitazione.

Una volta “smontata” la pila si servono in cestini di vimini accompagnati con salumi e formaggi cremosi.

In Liguria i testi di terracotta e mica (minerale resistente al calore) vengono fabbricati da tempo immemore ad Iscioli, una piccola frazione del comune di Ne. Nonostante la loro produzione sia un’ arte che va lentamente scomparendo, si possono ancora trovare nelle botteghe e nei consorzi agrari dell’entroterra di Chiavari.

Durante la seconda guerra mondiale, quando i tedeschi distrussero un ponte che collegava il comune di Podenzana con il resto della regione, gli abitanti del borgo sopravvissero mangiando panigacci fatti con farina di ghiande e castagne.

Oggi costituiscono la principale pietanza proposta nei menù delle trattorie del territorio.

In Copertina: I Panigacci. Foto tratta dalla Bottega del Panigaccio. Podenzana (Ms).

Il Bagnùn de Ancioe

Il Bagnùn de Ancioe (Bagnùn di Acciughe) è il piatto tipico di Riva Trigoso, borgo marinaro, frazione della, con le sue celebri baie, più nota Sestri Levante.

Si tratta di una zuppa a base di acciughe, pomodoro, gallette del marinaio e olio.

Quelle stesse gallette del marinaio un po’ pane e un po’ biscotto ingrediente insostituibile di un altro capolavoro della cucina ligure, il Cappon Magro.

Il Bagnùn nasce a bordo delle lampare e dei leudi quando già nel ‘800, essendo l’acciuga la regina del pescato, i marinai lo cuocevano sui fornelli a carbone.


Da 1960 al Bagnùn viene dedicata un’apposita sagra estiva il penultimo fine settimana luglio.

Pescatori al lavoro durante la sagra del Bagnùn.

In quest’occasione la zuppa offerta gratis, pena interminabili code smaltite con zelo dai volontari, attira migliaia di visitatori.

Il Bagnùn si può comunque gustare, pescato permettendo, tutto l’anno nelle trattorie del borgo e dei paesi limitrofi.

Se passate nel Golfo del Tigullio, merita, non perdetevelo. Un piatto sincero e verace della nostra tradizione.


Ingredienti e dosi (Per 4 persone)

  • 1 kg di acciughe fresche
  • 1-2 spicchi d’aglio
  • un ciuffo di prezzemolo
  • 1 mazzo di basilico
  • 1 cipolla
  • 500 g di pomodori da sugo
  • 1 bicchiere di vino bianco secco
  • 2 cucchiai d’olio extravergine (possibilmente ligure)
  • 4 gallette del marinaio
  • sale q.b
    Preparazione
    Pulire bene e sviscerare le acciughe.
    Tritare le verdure (escluso il basilico) e soffriggerle in padella nell’olio, fino a ché imbiondiscono.
    Eliminare l’aglio.
    Unire i pomodori anch’essi tritati, regolando di sale e cuocendo per una decina di minuti.
    Aggiungere le acciughe e cuocere, senza mai scuotere il tegame, un’altra decina di minuti, col vino bianco, a fuoco moderato.
    Impiattare il Bagnùn nelle fondine, sopra le gallette, bagnate prima nel vino bianco e precedentemente strofinate con aglio.

    Ricetta dal sito Il Tigullio.

In Copertina: Il Bagnùn. Foto di Ambrogio Razzini.

Tortino di acciughe alla maniera di Vernazza

Nella maggior parte d’Italia le chiamano alici, qui in Liguria sono le acciughe e sono un vero e proprio culto, in particolare nella riviera di Levante, molto apprezzate quelle di Monterosso.

In realtà non vi è località sulla costa che non organizzi una sagra a tema, la più famosa delle quali è senza dubbio quella del Bagnun di Riva Trigoso.

Qui invece ho deciso di soffermarmi sul tortino di acciughe che si può declinare in mille modi come, ad esempio nella versione del Tian (tegame di Vernazza) o, in modalità autunnale con funghi porcini.

Tortino di acciughe. Foto e preparazione dell’autore.

Io ne ho elaborato una versione al forno con due strati alternati di patate e acciughe farciti con capperi, aglio, pomodorini, cipolla, maggiorana e origano.

Non ho aggiunto, anche se molte ricette lo prevedono, il parmigiano al fine di non coprire ma preservare il sapore dell’acciuga.

Prodotti dell’orto e pesci del mare si fondono in un invitante connubio.

In Copertina: Tortino di acciughe pronto da infornare. Foto e preparazione dell’autore.