… ci si imbatte in quel che resta del trecentesco Ospitale di San Giacomo. Sull’edificio immerso in un contesto ampiamente cementificato affiorano melanconiche testimonianze di sbiaditi affreschi.
breve storia di un Ospitale perduto…
Sotto la trafficata Corso Europa, costruita negli anni ’60 con il nome di Pedemontana, esiste ancora un quartiere nel quale si possono riscontrare tracce di un lontano passato medievale. In Via Antica Romana di Quarto infatti, varcato il confine tra i quartieri di San Martino e Quarto rappresentato dal Pontevecchio (da qui il toponimo della contrada), ci si imbatte in quel che resta del trecentesco Ospitale di San Giacomo. Sull’edificio immerso in un contesto ampiamente cementificato affiorano melanconiche testimonianze di sbiaditi affreschi.
Alzando lo sguardo si notano una torre ormai inglobata e una finestra con la classica bifora a sesto acuto. Al centro del prospetto campeggia l’immagine di un soldato crociato a cavallo, il valoroso San Giacomo appunto.
Merlature, decorazioni varie e stemmi abrasi completano il viaggio a ritroso nel tempo. L’ospitale dipendeva dalla vicina chiesa di San Giovanni Battista di Quarto e fungeva da ricovero per i pellegrini in viaggio verso Roma.
L’originaria scarna cappella fu presto dotata di relativo campanile. A fine ‘700, in seguito alla promulgazione delle leggi napoleoniche che stabilivano la soppressione degli ordini religiosi, la struttura cessò la sua primitiva funzione. L’ospitale venne dismesso, sconsacrato e adibito a stalla.
Solo in un secondo tempo i suoi locali vennero trasformati in abitazioni ad uso privato e addirittura, nella seconda metà dell’800, adattati come sede di un pastificio.
Il campanile medievale di S. Stefano un tempo era parte della precedente chiesa longobarda di San Michele e prima ancora una torre militare del presidio arimannico cittadino.
“È un diffuso e impalpabile rumor di mare, quello che senti o ti par di sentire tra le navate nere di secoli e di semitenebra, ch’è anche, per chi abbia orecchio esercitato ad intenderlo, sommesso brusio di traffici e di lucri: di cantieri in opera lungo i due corni della città, nonchè di gravi sirene mercantili, le quali da navi che vengono e vanno, e sempre profonde come bassi d’organo, specie di notte fanno vibrare le invetriate, quando placatosi il concerto delle gru, dei magli e delle perforatrici, odi più chiaro l’ansito della risacca, la cui rotolante ghiaia dà anch’essa il suono e l’idea, nella doppia caligine di quelle chiese, d’un fosforico rotolio di zecchini….
… Intanto, più che chiese le direi bui gusci marini (conchiglie che sembrano a volte fossilizzate) ed entrare in una di tali chiese di dure pietre grige annerite dai fumi portuali e industriali (in San Donato, in San Giovanni in Prè, per tacer di tutte le altre, arci famose), sempre mi è parso un poco entrare in una sorta di murice, ingrandimento di quelli, ruvidi d’incrostazioni calcaree e saline, che i ragazzi raccattano sul litorale, e accostano all’orecchi per sentire il rumore del mare”.
E’ uno degli scorci più suggestivi di Genova, un luogo sospeso nel tempo dove luci ed ombre ingannano lo spazio giocando a nascondino. Si tratta di Via e Piazza di Santa Croce incastrate fra Sarzano e la collina di Santa Maria di Castello, il fulcro più antico del centro storico.
Qui, vegliati da una settecentesca edicola del Battista, si ha la possibilità di effettuare una passeggiata a ritroso nel tempo di quasi 900 anni nella scomparsa chiesa di Santa Croce.
L’edicola presenta un tempietto in marmi policromi con semi colonne ioniche e raffigura San Giovanni Battista nel deserto accompagnato da San Giovannino con in braccio l’agnello. La mensola poggia su un cherubino alato mentre la statua del santo presenta il braccio destro mozzato.
Quest’area costituiva un tempo l’antico complesso di Santa Croce, vicino all’attigua omonima porta, una delle tante strutture del litorale cittadino, atte al ricovero dei pellegrini da e verso la Terrasanta.
All’interno del locale, nomen omen, “La Passeggiata” al civ. n. 21r ne sono testimonianza i resti ancora visibili di brani della pavimentazione originale, di porzioni del muro perimetrale con un grande arco tamponato facente parte delle Mura del Barbarossa (1155) e una nicchia dove sono conservati dei reperti rinvenuti durante la ristrutturazione avvenuta qualche anno fa.
In questo edificio, luogo di culto della comunità lucchese, era custodito un simulacro del crocifisso, da non confondersi con il Cristo Moro, del celebre “Volto Santo” tanto venerato in patria dai toscani. Il crocifisso del Cristo Moro così caro ai genovesi, oggi ricoverato in S. Maria di Castello, invece un tempo si trovava in una cappelletta sottostante il vicino monastero di San Silvestro.
Il complesso di Santa Croce, con annesso ospitale venne gravemente danneggiato durante il bombardamento del re Sole del 1684 e successivamente ricostruito in forme barocche nei primi anni del ‘700. Nel 1805, a seguito degli editti napoleonici, venne definitivamente soppresso ed inglobato nei palazzi di abitazione. La vicina San Salvatore ne incorporò nel 1809 il titolo, i beni e gli arredi.
Le quattro scenografiche colonne di pietra e laterizi fanno invece parte della ristrutturazione ottocentesca quando la chiesa venne trasformata in abitazioni private.
Prima d’incrociare con lo sguardo Salita della Seta con la sua pendenza tutt’altro che morbida, al civ. n. 33 s’incontra lo spettacolare portale in ardesia ristrutturato e ricostruito su modello rinascimentale. Sul fastigio un’aquila a due teste che tiene con le zampe il globo e una fiaccola, lo stemma nobiliare degli Spinola. Sul trave l’epigrafe “Flangar non flectar” (mi spezzerò ma non mi piegherò), il motto così adatto alle secolari vicissitudini della Repubblica.
La chiesa di Santa Croce non c’è più ma la si può lo stesso immaginare lì, seguendo il percorso dello stretto caruggio che costeggia le mura di contenimento del Castello. Rivolta verso il mare e inglobata dalle case costruite sopra le Grazie sita, proprio come allora, in una posizione invidiabile.
In Piazza Matteotti, accanto al palazzo Ducale, si affaccia la chiesa insieme all’Annunziata, più importante del Barocco europeo, la chiesa del Gesù. Dentro a questo edificio sono racchiusi capolavori secenteschi da far invidia a qualunque museo.
In realtà il nome completo dell’istituto è chiesa dei Santi Ambrogio e Andrea. In origine venne costruita nel ‘500 d. c. dai vescovi milanesi in fuga dalla loro città minacciata dai longobardi.
Il Vescovo Onorato nel 569 trasferì la diocesi lombarda al sicuro fra le mura di Genova stabilendosi sul Brolio, accanto al piano di S. Andrea e intitolando la chiesa al patrono di Milano, S. Ambrogio. Circa un millennio dopo nel 1552, la chiesa passò nelle mani del più influente ordine del tempo, quello dei Gesuiti, la cui potenza e ricchezza erano in continua espansione. Dal 1589 assunse le forme ancora attuali, facciata a parte, che venne ridisegnata nel sec. XIX dopo la demolizione della cortina di protezione del palazzo Ducale (il palazzo ducale comunicava quindi non solo con San Lorenzo, la cattedrale, ma anche con la chiesa del Gesù, il fulcro del potere gesuitico) e la relativa risistemazione della piazza. I disegni del prospetto esterno realizzati da Rubens vennero dall’artista stesso inseriti nel suo celebre trattato sui palazzi di Genova.
La classica facciata sulla quale spiccano le due statue dei santi del 1894 del Ramognino non rende giustizia su quale sfarzo e opulenza vi si possa trovare all’interno:
Cupola e navata principale sono affrescati da Giovanni Carlone e Giovanni Battista Carlone, mirabilmente inserite in un contesto di decori, stucchi e ori abbaglianti. Sull’altare principale campeggiano “La Circoncisione di Gesù”, capolavoro di Rubens, “La Strage degli Innocenti” del Merano e “La Fuga in Egitto” di Domenico Piola.
Nella navata di destra, nella prima cappella, affreschi del Galeotti e il dipinto “S. Ambrogio caccia l’imperatore Teodosio” di Giovanni Andrea De Ferrari. Le statue delle nicchie sono del Borromeo e di Domenico Casella.
L’affresco della seconda cappella è opera di Lorenzo de Ferrari ed una “Crocifissione” del Vouet. Lunette dell’arco esterno affreschi e statue del Carlone e della sua bottega.
Sotto l’altare Tommaso Orsolino ha scolpito un meraviglioso presepe marmoreo.
Sull’arco della terza cappella “L’Assunzione” di Guido Reni, affreschi del De Ferrari ed altre statue dei De Ferrari.
Dal lato opposto, nella quarta cappella della navata di sinistra “Il Martirio di S. Andrea” del Piaggio e di Andrea Semino, tela cinquecentesca, nella terza cappella gli affreschi del Carlone e “Sant’Ignazio guarisce un ossessa” di Pieter Rubens.
Nella seconda cappella “Il Martirio di San Giovanni Battista” di Bernardo Castello, “Il Battesimo di Cristo” di Domenico Passignano e statue rappresentanti Elisabetta e Zaccaria di Taddeo Carlone. Nella prima cappella affreschi di Lorenzo De Ferrari e il “San Francesco Borgia” di Andrea Pozzo.
Nella cantoria infine oltre all’organo, sono presenti sculture della bottega dei fratelli Santacroce e altre opere di Domenico Fiasella e, nella cappella di testata a sinistra, di Valerio Castello.
Non un solo centimetro risulta non stuccato, decorato, dipinto. Un trionfo di luci ed ombre con giochi di chiaroscuri mai visti prima, che trova il suo apogeo nella Circoncisione di Rubens. Il morbido e sensuale dipinto che sembra brillare di bagliori ultraterreni.
Si tratta indiscutibilmente di uno dei luoghi di culto più affascinanti della città. Collocata sotto la collina di castello, a ridosso del Mandraccio, la chiesa dei SS. Cosma e Damiano nella sua lineare architettura romana, gioca a nascondino fra i caruggi.
Un tempo la zona era nota con il nome di “contrada serpe” ed era puntellata di abitazioni turrite, dimore strategiche delle famiglie più in vista dell’epoca: Malloni, Della Volta, Della Chiesa, Zaccaria, Castello.
La struttura, come del resto gran parte della zona, venne pesantementedanneggiata durante il bombardamento del re Sole del 1684, il chiostro distrutto. I bombardamenti dal 1942 al 1944 completarono lo scempio causando la perdita d’importanti dipinti, come elencato nell’inventario della chiesa, di Giovanni Roos, Domenico Castello e Domenico Fiasella.
Interessanti sono le sculture poste sul portale datate intorno al 1155, le più antiche dell’edificio. L’architrave è il reimpiego di una cornice romana arricchita da un motivo a mosaico in marmi policromi. Particolari poi, sui capitelli del vestibolo di destra, le sculture di una sirena-uccello e di una sfinge dal volto femminile. Il resto della costruzione è risalente al ‘200.
La storia di questa chiesa risale alla notte dei tempi, intorno al VII sec. d. c. quando venne intitolata una cappelletta al vescovo di Pavia San Damiano. La fabbricazione vera e propria del tempio avvenne, come testimoniato dai documenti di fondazione, solo nel 1049. Durante il secolo successivo la chiesa raggiunse il suo apogeo con la costruzione del portale, l’erezione della torre nolare e l’inserimento del rettore fra gli aventi diritto alla votazione per l’elezione del Vescovo.
Nel 1296 le famiglie Mallone e Spinola donarono le reliquie, provenienti da Costantinopoli, dei due fratelli martiri, Damiano e Cosma che divennero così i santi cointestatari dell’edificio. Essendo i due i patroni dei chirurghi e dei barbieri, dal 1476 le relative corporazioni vi stabilirono la comune cappella della propria consorteria.
La facciata a capanna, in pietra, tripartita da lesene nella parte superiore, presenta in basso un basamento nel quale sono ricavate tre tombe ad arcosolio con arcate a tutto sesto del XII sec. ed una con arco acuto retto da colonnine gotiche, con decorazione a bande bianche e nere, detta “tomba del Barisone”, realizzata durante la ristrutturazione del XIII sec. Durante l’anno è spesso abbellita da addobbi floreali, nel periodo natalizio nobilitata da un grazioso presepe.
Nella facciata si aprono due monofore in alto un finestrone semicircolare, realizzato nel XVII sec., quando venne costruito il tetto in muratura in sostituzione di quello originario a capriate lignee, distrutto dal bombardamento francese del 1684.
Nella parte superiore della facciata restano tracce del primitivo rosone. L’interno a tre navate puntellate da sei colonne bianco nere, in marmo di Carrara e di pietra di Promontorio con capitelli a forma di foglia di acanto, si presenta spoglio ed essenziale. I mattoni a vista sono frutto d’interventi settecenteschi posteriori al bombardamento. Lo scarno aspetto non deve trarre in inganno perché sotto le navate sono custodite pregevoli opere d’arte quali: “La Madonna del Soccorso” del XIV sec. di Barnaba da Modena, autore anche della più nota “Madonna del Latte” ricoverata oggi in San Donato, “Ester e Assuero” del XVI sec. di Bernardo Castello, “La Madonna col Bambino e i Santi Cosma e Damiano che guariscono i malati” di Gioacchino Assereto e “Il Transito di San Giuseppe” del XVII sec. di Giovanni Andrea De Ferrari.
Nell’abside di sinistra è situato il fonte battesimale medievale scolpito nel marmo mentre sull’altare spicca la statua marmorea della Madonna Immacolata del XVII sec. del marsigliese Pierre Puget, apprezzato autore di simili opere nell’Albergo dei Poveri e nell’Oratorio di San Filippo Neri.
Per gli amanti della musica merita menzione il settecentesco organo a canne.
Sul pavimento si nota un disegno particolare: il teschio e le tibie incrociate il simbolo del jolly roger adottato dai pirati.
Ma le sorprese non finiscono qui perché una volta usciti nella piazza al civ. n. 2r ecco un antichissimo sovrapporta con San Giorgio e il drago in pietra nera di Promontorio. Il rilievo purtroppo risulta ormai abraso mentre la cornice marmorea con motivi floreali risulta ben conservata. Passato l’archivolto che conduceva un tempo allo scomparso chiostro si notano due nicchie vuote e, svoltando a sinistra s’incontra una lapide del XVI sec. raffigurante due angeli nell’atto di sorreggere un medaglione col volto di un santo non ben identificato. Imboccato il Vico dietro il Coro ecco due edicole: la prima, al civ. n. 6r quella del XVII sec. della Madonna della Misericordia. La Vergine che appare al Beato Botta è contenuta in un rilievo tondo delimitato da una pesante cornice alla cui sommità campeggia un cuore elaborato con fregi e riccioli con al suo interno il trigramma di Cristo e il monogramma di Maria con la corona. Poco dopo, la seconda, una Madonna di città in un tabernacolo a tempietto marmoreo classico, con una volta arcuata e testina di cherubino alato. Ai lati delle lesene decori con ampi riccioli e fogliami. La statua della Madonna è mancante.
Ai SS. Cosma e Damiano il gioiello incastonato nella pietra, dove un tempo l’onda frangeva sulla scogliera, si respira ancora l’odore di salsedine e si raccontano ancora storie di pirati.
Con lo sviluppo delle attività marittime la famiglia Striggiaporco ottenne nel 1173 dal Vescovo Ugo Della Volta il permesso di erigere una nuova chiesa nel quartiere portuale del Molo. Curioso il fatto che il suo promotore volle intitolarla al santo protettore della rivale Venezia. All’ingresso della chiesa sulla sua tomba i suoi eredi, nel frattempo confluiti nell’albergo dei Salvago, nel ‘500 posero una lapide in ricordo del fondatore.
In origine l’accesso all’edificio di pietra in stile romanico era rivolto ad ovest e la chiesa si stagliava direttamente sui prolungamenti dei moli aggrappati alla scogliera. All’inizio del XIV sec. ne fu parroco il primo cartografo genovese di cui si abbia notizia, Giacomo da Carignano il quale, oltre ad essere uomo di chiesa e di scienza, fatto al tempo inconsueto, era anche personaggio attento agli affari: nel 1314 infatti venne diffidato dall’Arcivescovo Porchetto Spinola per aver affittato alcuni locali della chiesa ad uso marittimo a privati cosa che, con la successiva benedizione e copertura della Curia romana, continuò impunemente a fare.
L’edificio fu oggetto a lavori di manutenzione nel ‘400 ma fu nel ‘500 che operò le principali trasformazioni venendo inglobato nella più recente, a quel tempo, cinta muraria culminata con l’erezione della poderosa Porta Siberia. Le mura della Marinetta costeggiandola lungo tutto il lato a nord la separarono dal contatto diretto con i moli ai quali rimase collegata, come per mezzo di un materno cordone ombelicale, attraverso la Porta della Marinetta. Fu in questa occasione che l’esposizione della chiesa venne ridisegnata e disposta al contrario. Quello che oggi è l’ingresso un tempo costituiva l’abside. Sul finire del ‘500 e per tutto il ‘600 S. Marco al Molo subì continue modifiche e rifacimenti culminati con la settecentesca versione barocca.
Fino ancora a gran parte dell’800, essendo il Molo la sede delle esecuzioni capitali, S. Marco costituiva l’ultima tappa del macabro corteo che partiva dal Palazzetto Criminale per snodarsi lungo le vie del centro e ricevere qui l’ultima benedizione. A testimonianza di questo spiacevole compito una lapide del 1654 rammenta come il parroco della chiesa si fosse assunto l’onere di celebrare messa in suffragio perpetuo per i condannati ogni sabato e il 2 novembre di ogni anno.
A seguito dei restauri resisi necessari a causa dei bombardamenti della seconda guerra mondiale sono stati riscoperti colonne ed archi romanici originali, le tracce dell’antica abside, a conferma di quanto sopra affermato, ovvero che la chiesa avesse un diverso orientamento rispetto a quello attuale e i resti della base ottagonale dell’antica torre demolita nel 1783 perché pericolante. Venne successivamente sostituita con l’attuale campanile a torre.
Il campanile originario della chiesa romanica era in realtà una “torre nolare“, in quanto incorporata nella struttura dell’edificio principale, tipica del romanico primitivo; di forma ottagonale simile a quello della chiesa di S. Donato.
Interessante il piccolo distacco di via del Molo, risalente al 1594, che accoglie il portico medioevale costruito nel 1346 a ridosso di quella che era allora l’abside della chiesa e che era utilizzato per le riunioni della “conestagia” (circoscrizione amministrativa popolare della Genova medioevale, sorta in contrapposizione di quella nobile degli “alberghi“). Ne costituiscono indelebile traccia le arcate, tamponate e le colonne in pietra accorpate nella muratura.
Se l’esterno si presenta quindi anonimo e, ad eccezione di qualche lapide e del celebre leone di Pola, non merita menzione l’interno al contrario, diviso in colonne a lesene bianche e nere, ornate da capitelli cubici, è ricco di sorprese e custodisce opere d’arte di pregevole fattura:
vicino alla parete d’ingresso, ”l’Assunta”, statua lignea, parte di una preziosa cassa processionale, di Anton Maria Maragliano (1736); presso il secondo altare della navata destra, “Madonna e i santi Nazario e Celso”, gruppo marmoreo di Francesco Maria Schiaffino (1735), commissionato dalla prestigiosa e potente corporazione, come indicato da un’iscrizione presso lo stesso altare, degli Stoppieri (maestri calafati).
Tra i dipinti si notano: “Martirio di Santa Barbara”, opera giovanile di Domenico Fiasella (1622), commissionato corporazione detta dei Bombardieri (addetti alla costruzione e all’uso delle artiglierie), i “Santi Agostino e Chiara “di Antonio Giolfi, “Nozze mistiche di Santa Caterina” di Orazio De Ferrari (1630 circa) e “Anime purganti”, dipinto seicentesco attribuito a Giulio Benso.
Nella cappella alla destra del presbiterio infine, un altare in marmo di Daniello Solari (fine del XVII secolo), dedicato alla Madonna del Soccorso raffigurata, racchiusa in una scenografica cornice marmorea, in una tavola di Giovanni Carlone.
Nel 1909 l’architetto Gaetano Poggi modificò le scale di accesso e sostituì con ringhiere in ferro, il muretto al quale venivano legati i cavalli. La sproporzionata scalinata al sagrato fuinvece l’ultimo, fallito tentativo, di Orlando Grosso di risistemazione degli spazi.
La piazza non ospita solo la chiesa e il chiostro ma, essendone la roccaforte, anche le principali dimore dei più importanti esponenti del casato:
Al civ. 16 Palazzo Domenicaccio Doria del XIV sec. con la loggia a tre arcate a sesto acuto, oggi tamponate. Alle originarie triforedel piano nobile sono state sostituite tre normali finestre con relativi balconetti del XVII sec.
Al civ. 15 Palazzo Lamba Doria l’unico con il porticato aperto sulla piazza. Per un certo periodo le quadrifore vennero chiuseperché gli spazi vennero destinati alle botteghe. In seguito ai bombardamenti del 1942 restò in piedi solo la facciata e venne recuperato e restaurato a partire dal 1950.
Al civ. 17 Palazzo Andrea Doria donato dalla Repubblica all’ammiraglio riconosciuto come “Padre della Patria” per averla liberata dall’occupazione francese. Il prestigioso portale di scuola toscana è per taluni opera di Niccolò da Corte e Gian Giacomo della Porta per altri, di Michele D’Aria e Giovanni da Campione. Ricco di animali esotici e fantastici quali pavoni, lucertole, teste di montoni e leoni, sirene danzanti, uccelli che beccano fiori, grifoni, pesci mostruosi e altri animaletti.
Sopra l’architrave è scolpita l’epigrafe relativa alla donazione: “Senat. Cons Andreae De Oria PatriaeLiberatori Munus Publicum”.
Il palazzo fu fatto costruire nel 1460 da Lazzaro Doriafatto testimoniato dal sovrapportanell’atrio, in pietra di Promontorio del 1480raffigurante, in omaggio al committente, la Resurrezione di Lazzaro. Al suo interno alcune parti sono ricoperte in azulejos, il rivestimento di stile moresco, molto in voga in quegli anni e molto apprezzato dal Signore del mare. In realtà il Principe non abitò mai in questa dimora perché preferì la strategica e scenografica Villa che si era fatto costruire, appena fuori dalle mura, in località Fassolo.
Al civ. 13 Palazzo Branca Doria da cui si accede al chiostro. Dante rese famoso Branca per averlo messo, ancora vivo, all’Inferno reo di aver ucciso il suocero Michele Zanchè che si era rifiutato di concedergli la cospicua dote della figlia Caterina. Secondo il Poeta gigliato il corpo del patrizio genovese sarà posseduto in terra da un diavolo e a lui è rivolta la celebre invettiva: “AhiGenovesi, d’ogni costume e piend’ogni magagna, perché non siete voi del mondo spersi?”. Versi 151-153 del XXXIII canto dell’Inferno.
Al civ. 19 della Salita ecco Palazzo Doria Danovaro con la copia dello splendido sovrapporta di S. Giorgio che uccide il Drago. L’originale è stato rubato.
Per chiudere in bellezza all civ. 1 di Via Chiossone si può ammirare il raffinato portale con il “Trionfo dei Doria” del XV sec., opera di Elia Gagini.
Al centro un carro ornato di ghirlande con due guerrieri che reggono lo scudo araldico del casato. Il carro è trainato da centauri che impugnano l’insegna del comando. Dietro al centauro un putto alato e, sotto fra le zampe, un cagnolino. Sullo sfondo due soldati con angioletti alati spingono il barroccio. Al centro della cornice il trigramma di Cristo.
Franco Battiato ancora non era natoquando i Doriaavevano già fatto loro Il verso della “Cura” del cantautore catanese “Più veloci di aquile imiei sogni attraversano il mare”… Visto che i loro sogni di gloria le aquile genovesi li avevano già ottenuti dettando legge in tutti i mari!
In Copertina: Piazza e chiesa di San Matte. Foto di Stefano Eloggi.
L’antica abbazia fu fondata nel 1125 da Martino Doria che, rimasto vedovo, prese i voti presso il cenobio di Capodimonte e stabilì che la nuova chiesa, a questo dovesse rimanere soggetta.
Come per l’abbazia di S. Fruttuoso anche per quella di S. Matteo i Doria, divenuta nel frattempo dominio gentilizio, si riservarono il perpetuo diritto di nomina dell’Abate.
Professando la famiglia Doria “Illi de Auria” (quelli della porta aurea) a ridosso della Porta Aurea il mestiere dei gabellieri la intitolarono a S. Matteo riscossore di tasse e, quindi, lo assursero a loro patrono.
Il nuovo luogo di culto venne consacrato nel 1132 alla presenzadel Vescovo Siro II e del Papa Innocenzo II.
Nonostante la vicinanza alla Cattedrale, il prestigio di questi illustri padrini, conferma l’importanza di questo edificio e la potenza della schiatta dei Doria.
La costruzione in stile romanico venne completamente rivisitata nel 1278 in chiave gotica.Risalgono a quest’epoca sia l’arretramento della facciata che la sopraelevazione della piazza.
Fra il 1308 e il 1310 venne infine realizzato, come testimoniato dall’incisione “MCCCVIII Aprilis Magister Marcus Venetus FecitHoc Opus”, per mano di un maestro veneto anche lo splendido attiguo chiostro, oggi proprietà privatadell’Ordine degli Architetti.
Costruita in marmo bianco di Carrara e pietra nera di Promontorio, privilegio concesso solo ai Doria, Fieschi, Spinola e Grimaldi, reca incise sui blocchi bianchi le grandi imprese degli ammiragli della casata.
A metà del ‘500 Andrea Doria affidò al Montorsoli la ristrutturazione della chiesa, nello specifico di cupola e presbiterio. Particolare riguardo ebbe l’artista fiorentino nel concepimento della cripta che costituirà sepolcro e monumento funebre dell’ammiraglio e dei suoi cari. Negli interventi decorativi venne coinvolto anche Luca Cambiaso che dipinse episodi della vita del santo. La chiesa sempre più fuse e sovrappose i precedenti stili evolvendoin chiave rinascimentale prima e barocca poi.
In facciata, pezzo unico del genere nella nostra città, merita menzione il mosaico che raffigura S. Matteoopera di maestranze venete del XIII sec.
Sempre nel prospetto principale è inserito un sarcofago romano che illustra “L’allegoria dell’autunno”, in cui è sepolto Lamba Doria, l’eroe della battaglia di Curzola nel 1298 quando i genovesi sconfissero i veneziani. In quell’occasione venne catturato Marco Polo e condotto nelle galere patrie di palazzo S. Giorgio dove dettò a Rustichello da Pisa, il suo celebre “Milione“. La lapide posta sotto il sarcofago recita: “Hic Iacet Lambe De Auria Dignis Meritis Capitaneus et Admiratus Comunis et Populi Ianue Qui Anno Domini MCCXXXXXVIII die VII Septembris Divina Favente Gratia Venetos Superavit et Obiit MCCCXXIII die XVII Octuber”.
Come testimoniato da un’altra epigrafe conservata nel chiostro Lamba catturò anche l’ammiraglio nemico, il temutissimo Dandolo, distrusse 84 navi e fece 7400 prigionieri:
“Ad Honorem Dei et Beate Verginis Marie Anno MCCLXXXXVIII die Dominico VII September Iste Angelus Captus Fuit in Gulfo Venetiarum in Civitate Scurzole et Ibidem Fuit Prelium GalearumLXXXVI Ianuensium cum Galeis LXXXXVI Veneciarum Capte FueruntLXXXIIII per Nobilem Virum Dominum Lambam Aurie Capitaneum et Admiratum Tunc Comunis et Populi Ianue cum Omnibus Existentibus in Eisdem de Quibus Conduxit Ianue Homines Vivos Carceratos VIIMCCCC et Galeas XVIII Reliquas LXVI Fecit Cumburi in Dicto Gulfo Veneciarum Qui Obiit Sagone in MCCCXXIII”.
All’ interno della chiesa sono custodite opere di pregio quali, nella navata centrale “il Miracolo del dragone d’Etiopia” di Luca Cambiaso e la “Vocazione di S. Matteo” di G.B. Castello. Sull’altare di destra risalta una “Sacra Famiglia” di Bernardo Castello e, a sinistra, un “Cristo tra i santi e i donatori” di Andrea Semino.
Sotto l’altare maggiore, in corrispondenza della cripta, è custodita in una teca fedele copia della spada di “difensore della Cristianità” che Andrea Doria ricevette in dono da Papa Paolo III. L’originale venne rubata a metà del ‘500 e ne venne recuperata solo la lama. Dell’elsa incastonata di pietre preziose non se ne seppe più nulla.
Nella navata di sinistra si trova invece uno dei capolavori del Maragliano, la “Deposizione di Gesù nel sepolcro”.
Insieme alla cripta il Montorsoli decorò di statue anche l’abside. Nel sepolcro accanto all’ammiraglio riposano la moglie Peretta e il nipote Giannettino, l’erede vittima della congiura dei Fieschi.
Oltre ai già citati Lamba e Andrea, qui sono sepolti Oberto, il vincitore dei pisani alla Meloria nel 1284, Luciano dei veneti a Pola nel 1380, Filippino dominatore degli spagnoli e Pagano anch’egli trionfatore sui veneziani.
Per gli amanti della musica particolare interesse riscuote, collocato in corrispondenza del transetto sinistro, l’organo tardo settecentesco di scuola romana.
All’interno ecco il chiostro progettato da un artista veneto, probabilmente prigioniero di guerra, in cui sono conservate numerose lastre e lapidi tombali della casata provenienti dal demolito convento di S .Domenico chesi trovava un tempo nella zona occupata dall’attuale teatro Carlo Felice.
Una tomba fatta costruire a metà del ‘300 racchiude le spoglie, restituite poi nel 1934, dei martiri Mauro ed Eleuterio patroni di Parenzo e trafugati dai Doria agli istriani.
Una lapide racconta di Oberto che il 6 agosto del 1284 fece prigionieri l’ammiraglio veneziano al comando dei pisani, il Morosini e il figlio del Conte Ugolino nonché della solenne consegna dello stendardo della capitana pisana nella chiesa:
“In Nomine Individue Trinitatis Anno Domini MCCLXXXIIII Die VI Augustis Egregius PotensDominus ObertusDe Auria Tunc Capitaneus et Admiratus Comunis et Populi Ianuensis in Portu Pisano Triunfavit de Pisanis Capiendo ex eis Galeas XXXIII et VII Submersis et Ceteris Fugatis Multisque Ipsorum Murtuis Ianuam Reversus Fuit Cum Maxima MultitudineCarceratorum Ita Qui Tunc VIII MiliaCCLXXII Carceribus Ianue Fuerunt Inventi in Quibus fuit Captus Albertus Molexinus de Veneciis Tunc Potestas et Dominus Generalis Guerre Comunis Pisarum cum Stantario Dicti Comunis Capto per Galeas Illorum De Auria et in hac Ecclexia Asportato cum Sigilo Dicti Comunis et Loto Quondam Comitis Ugolini et Magna ParsNobilitatis Pisarum”.
Una seconda lapide riferisce della distruzione di Porto Pisano avvenuta il10 settembre 1290, per mano di Corrado:
“MCCLXXXX Die X Septembris Conradus Auria Capitaneus et AdmiratusReipublice Ianuensis Destruxit Portum Pisanum”.
Un’epigrafe è dedicata a Pagano che nel 1352 a Costantinopoli e nel 1354 a Parenzo sconfisse le flotte veneziane-catalane e che, insieme al cospicuo bottino, prese le reliquie dei martiri Mauro ed Eleuterio:
“Ad Honorem Dei et Beate Marie MCCCCLII die VIII Marcii Nobilis vir Dominus Paganus De Auria Admiratus Comunis et Populi Ianue cum Galeis LX Ianuensium Prope Costantinopolim Strenue Preliando cum Galeis LXXXCatalanorum Gregorum et Venetorum de Omnibus Campum et Victoriam Otinuit Idem Eciam Dominus Paganus MCCCClIII die III Novembriscum Galeis XXXV Ianuensium in Insula Sapiencie in Portu Longo Debelavit et Cepit Galeas XXXVI cum Navibus III Venetiarum et Conduxit Ianuam Vivos Carceratos VMCCC cum Eurom Capitaneo”.
Ancora un’altra iscrizione ricorda Luciano vincitore a Pola nel 1380, dove perse la vita in mare, dei veneti:
“Ad Honorem Dei et Beate Marie MCCCLXXVIII die V Madii in Gulfo Veneciarum Prope Polam Fuit Prelium Galearum Ianuensium cum Galeis XXII Veneciarum in Quibus Erant Homines Arnorum CCCCLXXV et Quam Plures Alii de Pola Ultra Ihusman Dictarum Galearum de Quibus Galeis Capte Fuerunt XVI cum Hominibus Existentibus in Eisdem per NobilemDominum Lucianum De Auria Capitaneum Generalem Comunis Ianue Qui in Eodem Prelio Mortem Strenue Belando Sustinuit que Galee XVI Venetorum Conducte Fuerunt in Civitatem Jadrae cum Omnibus Carceratis IIMCCCCVII”.
Un’ultima lapide annovera fra i grandi anche Filippo che, nel 1528 al comando della flotta affidatagli da Andrea, per conto dei francesi schiantò gli spagnoli nel golfo di Napoli.
“Deo Optimo Maximo Philippus Doria Comes Vestigia Majorum Sequens sub Vexillo Francisci Primi Francorum Regis Christianissimi pro Praefecto Triremes Andreae Avuncoli in Regno Siciliae Citra Duxit in Sinu Salernitan cum Hostium Triremibus Legitime Felicissimeque Vario Marte Conflixit Gloriosam Tandem Mirabilenque Victoriam Deo Auspice Adeptus est MDXXVIII Aprilis Maxime Virtutis Monumenti”.
In copertina Piazza e chiesa di San Matteo. Foto di Stefano Eloggi.
Fuori dalle Mura del Barbarossa, costruite fra il 1155 e il 1163, si trovava la zona militare dove si esercitavano i balestrieri. Tale spazio era detto del “Vastato o Guastato” perché stava ad indicare i luoghi dei “guasti”, ovvero dei lavori di demolizioni e spianate attorno alle mura. Il Vastato e l’attiguo “burgus de praedis” (borgo di Prè) divennero così i siti prescelti per allestire campi di simulazione e allenamento funzionali alle attività belliche. Qui nel tratto compreso fra i due rivi, oggi sotterranei, di Carbonara e Vallechiara, esisteva dal 1228 una piccola chiesa denominata S. Marta del Prato, sulle cui fondamenta verrà successivamente eretta la maestosa Basilica dell’Annunziata. Nel 1508 i frati conventuali di S. Francesco, gli stessi del Castelletto e di Albaro vi si insediarono ed iniziarono i lavori di costruzione ed ampliamento del nuovo edificio intitolandolo al loro patrono, Francesco d’Assisi. Nel 1537 i francescani traslocarono e si ritirarono nella casa madre in S. Francesco del Castelletto. Furono sostituiti dagli Osservanti del convento della Santissima Annunziata di Portoria che ne mutarono il nome in Santissima Annunziata del Vastato. Sul finire del ‘500 i Frati, per ottemperare alle nuove disposizioni emanate dal Concilio di Trento, furono costretti a rinnovare la struttura. Le spese previste erano però di gran lunga superiori alle loro possibilità economiche così cedettero il giuspatronato della cappella maggiore alla potentissima e munifica famiglia dei Lomellini. La nobile e antica casata, padrona della colonia tunisina di Tabarca in cui esercitava la pesca del corallo, aveva accumulato immense ricchezze e non ebbe difficoltà a finanziare i lavori. Costoro ingaggiarono i maggiori artisti del ‘600 genovese; a Taddeo Carlone, Giacomo Porta e Domenico Casella (il cui soprannome “Scorticone” descrive bene il carattere rissaiolo dell’artista) furono affidate le principali opere strutturali e la direzione dei lavori. A questi si aggiunse il fior fiore, il gotha, delle maestranze genovesi del ‘6oo, la cui rinomata scuola aveva da tempo varcato i confini repubblicani: Giovanni e Giovanni Battista Carlone, Gioacchino Assereto, Domenico Piola, Luca Cambiaso, Giovanni Battista Paggi, Gregorio De Ferrari, Andrea Semino, Aurelio Lomi, Giovanni Andrea De Ferrari, Il Guercino, Luciano Borzone, i marmisti il marsigliese Pellè e il già citato Giacomo Porta, Procaccini, Bernardo Strozzi, lo scultore Tommaso Orsolino.
La decorazione della cupola venne affidata ad Andrea Ansaldo che vi si dedicò nei tre anni antecedenti la morte, avvenuta a soli 54 anni, dipingendola con la magnifica scena dell’Assunzione. Per tutto il ‘700le vicende della chiesa ruotarono attorno alle fortune della schiatta dei Lomellini che, estinguendosi nel 1794, non assistettero all’umiliazione della confisca della struttura, infelice conseguenza dell’effimera e neonata Repubblica Ligure del 1797.
I frati, in base alle disposizioni napoleoniche, abbandonarono il convento nel 1810 e vi fecero ritorno solo nel 1815 quando ospitarono Papa Pio VII, di passaggio in città e in viaggio verso Roma, dopo la prigionia francese. Il Pontefice vi celebrò con solenni e memorabili funzioni l’Ascensione il 4 e la Pentecoste il 14 maggio.
La scenografica facciata neoclassica con l’ormai familiare pronao caratterizzata da sei colonne in stile ionico, costituisce l’intervento strutturale più recente, essendo stato portato a termine nel 1867 sulla base dei progetti dell’architetto Carlo Barabino e del suo successore Giovanni Battista Resasco (i due colleghi e amici avevano anche realizzato il Cimitero Monumentale di Staglieno).
La Basilica dell’Annunziata rappresenta la summa, il capolavoro del Barocco genovese; l’effetto d’insieme è abbagliante, un tripudio di marmi, stucchi, affreschi, ornamenti in oro zecchino, ogni singolo centimetro è decorato come si conviene. Sembra sempre che vi splenda il sole, un’irruzione dirompente e artificiale dai riflessi abbacinanti. Il celebre filosofo francese Montesquieu visitandola, ne rimase talmente affascinato, da definirla “la più bella chiesa di Genova”. Molti furono le personalità attratte dalla bellezza della Basilica ma la descrizione, a mio parere più appropriata, rimane quellache ne tracciò il letterato parigino Adolphe Karr.
«…l’ Annunziata ha l’interno tutto dorato, tutto letteralmente, e i giorni di festa le colonne di marmo sono rivestite di damasco o velluto crimisi a frangie d’oro». Lo scrittore osserva la sostanziale differenza che contraddistingue le chiese genovesi da quelle francesi. In Francia la luce penetra misteriosamente e crea una «…dolce musica di colori che si armonizza con la musica dell’organo…», grazie alla forma ogivale delle finestre ed alla presenza di grandi vetrate. In Italia, invece, le volte basse e quadrate e la presenza di grandi finestre permettono al sole di entrare bruscamente, senza creare quella dolce armonia tanto cara al transalpino che, a proposito dello stile di vita genovese, prosegue «…non si mangia e non si dà da mangiare, non ci si veste e si va a una chiesa o un palazzo. La chiesa d’oro e il palazzo di marmo».
Non la pensava diversamente lo scrittore americano Mark Twain che nei suoi appunti annotava:
potrei dire che la chiesa dell’ Annunziata è una foresta di bellissime colonne, di statue, di dorature, di dipinti quasi senza numero, ma non darei un’idea esatta della cosa, e a che servirebbe? Fu costruita interamente da un’antica famiglia, che vi esaurì il suo denaro. Ecco dov’è il mistero. Avevamo idea che solo una zecca sarebbe sopravvissuta alla spesa…».
Durante la Seconda Guerra Mondiale l’Annunziata subì diversi bombardamenti, il più grave dei quali, quello del 29 ottobre 1943, causò danni irreparabili e la perdita degli importanti cicli pittorici di Domenico Fiasella.
I lavori di ripristino condotti nel dopoguerra hanno riconsegnato la Basilica al suo antico splendore e restituito, ai suoi ammiratori, legittimo orgoglio e giustificato stupore.
Se, come disse Carlo V a proposito del suo impero, a sottolinearne la vastità, “nel mio regno non tramonta mai il sole”, lo stesso si può dire della Nunziata di Genova, la chiesa “dove risplende sempre il sole”.
Da tempo immemore i Frati Minori Conventuali dalla vicina Abbazia di S. Giuliano, si ritirarono in un luogo “… magis idoneum et plus ab ecclesia matrice distantem…” più distante dal mare, dal chiasso e dai pericoli della spiaggia. Chiusa fra gli ulivi che le facevano da barrieraesisteva una piccola chiesa intitolata a S. Michele, sorella di quella che, ancora nel 1346 quando venne abbattuta per l’ampliamento delle mura trecentesche, con lo stesso titolo, si trovava nei pressi dell’attuale S. Stefano in città.
Fu la nobile famiglia Cebà Grimaldi quella che, fra il 1100 e il 1400, si adoperòpiù di ogni altra con cospicue donazioni per la manutenzione e gli abbellimentidell’edificio: nel 1316 contribuì all’erezione del Convento e nel 1323 alla costruzione, sul sito della precedente, di una nuova chiesa. Nel 1334 al titolo di S. Michele i Fratisostituirono, per acclamazione popolare, quello del fondatore del loro Ordine, S. Francesco d’Assisi.
Nel 1544 incorporò il titolo parrocchiale dell’antichissima chiesa dei S.S. Nazario e Celso che, aggrappata agli scogli aveva subito, causa le forti mareggiate, gravi danni, tali da renderne sconsigliabile il ripristino. Chiesa dei S.S. Nazario e Celso e S. Francesco d’Albaro è a tutt’oggi l’intestazione completa della parrocchia. Nel ‘600 anche la famiglia Giustiniani partecipò ai restauri dell’edificio e, per questo, nel 1843 un suo illustre esponente, Sua Eminenza il Cardinale Alessandro Giustiniani, ebbe il privilegio di esservi sepolto. Il sepolcro marmoreo in cui riposa nella cappella del S. Cuore è mirabile lavoro di Carlo Rubatto.
A cavallo fra ‘600 e ‘700 S. Francesco d’Albaro ottenne l’autonomia rispetto alla sede principale dei francescani a Genova, quella di S. Francesco in Castelletto.
Nel 1810 durante l’epoca della dominazione napoleonica e della soppressione degli ordini minori, i Frati furono costretti ad abbandonare il Convento rientrandone in possesso solo nel 1817, dopo l’indigesto ma, per loro salvifico passaggio al Regno di Sardegna dei Savoia.
Pregevole testimonianza della sua origine medievale è il duecentesco Portale in bell’arco acuto con sottili colonnine che reggono l’architrave, con al centro un affresco della Madonna in mezzo a due Monaci del XIV sec. A ricordo della sua primitiva intestazione rimane tuttavia un grazioso bassorilievo dell’arcangelo Michele in marmo.
Al suo interno le opere di maggior rilievo sono isecenteschi affreschi di G. B. Carlone raffiguranti il “ S. Francesco in Gloria” e il ”Sacrificio di Abramo”. Di non minore importanza sono tuttavia le decorazioni settecentesche di abside coro e transetto, del Galeotti e altri affreschi secenteschi di Giovanni Andrea Ansaldo che nobilitano l’Altare della Crocifissione.
S’incontrano poi un gruppo ligneo del Maragliano rappresentante il Battesimo di Gesù , un “S. Francesco che contempla Gesù e Maria” di Domenico Fiasella, una Crocifissione lignea del savonese Antonio Brilla, scultore ottocentesco e un’altra del Maragliano custodita nel corridoio della parrocchia. Per gli appassionati di musica sacra, di particolare interesse è l’organo ottocentesco opera di artigiani bolognesi che sostituì il precedente irrecuperabile strumento settecentesco.
Le sorprese non finiscono qui perché nel refettorio sono conservate “Una cena di Emmaus” di Stefano Magnasco padre del più celebre Alessandro e un bozzetto dell’”Ultima Cena” di Luca Cambiaso. Nel corridoio che porta dalla sacrestia all’archivio “La Crocifissione” di Pier Francesco Sacchi, pittore lombardo di rinomata fama. Questi, pavese di nascita ma albarino d’adozione, morì di peste nel 1528 nella sua Albaro, mentre Genova, provata dal “Sacco” subito quell’anno, inneggiava la ritrovata libertà grazie ad Andrea Doria. Nel corridoio del convento è esposto anche “S. Carlo” una tela del Procaccino.
Infine, nella Sacrestia si conserva un pregevole “Riposo durante la fuga in Egitto” di Francesco Campora, settecentesco poco noto, ma valente maestro della scuola genovese del suo tempo.
Insomma S. Francesco che sia in chiesa, nella sacrestia, nel convento o nel refettorio, in ogni angolo manifesta la sua opulenta devozione.