Non si sa se l’origine del nome “Carabaghe” ovvero il calarsi le braghe di popolare memoria sia dovuta alla vocazione erotica del quartiere oppure se sia legata all’etimo della vicina Salita del Prione dove, a far calare le braghe, erano invece i predoni. Secondo alcuni storici infatti il toponimo del prione deriverebbe dal latino barbaro “Predoni Castri”, poi “Montata Castri” che stava ad indicare la pericolosità del luogo, in mano ai briganti.
Quasi sicuramente invece l’interpretazione corretta del toponimo del vicolo deriva dal cinquecentesco utilizzo di piccole catapulte, denominate appunto “calabrage”, che servivano per lanciare sul nemico, oltre le mura, sassi di piccole dimensioni.
Gli strumenti bellici venivano quindi, data la vicinanza a Porta Soprana, ricoverati nell’attiguo caruggio che perciò ne assunse il nome, mutato nel tempo, in “carabaghe”.
In Copertina: Vico Carabaghe. Foto di Maria Beatrice.
I funzionari preposti decisero così con scarsa fantasia di scegliere il nuovo toponimo in relazione alle ristrette dimensioni del caruggio.
Vico Sottile infatti non sarà stretto come Vico delle Monachette o Vico della Luna che detengono il primato in materia, ma le sue ridotte misure ne giustificano comunque l’intitolazione.
Un tempo gli alberi di agrumi non erano patrimonio solo delle riviere.
La presenza di piante di arance e limoni, a confermare l’origine agreste di alcune contrade cittadine, era infatti documentata anche nel centro storico.
Terreni coltivati a orto o adibiti a giardino come il caso di vico dell’Arancio il cui toponimo rimanda a questa antica vocazione antecedente l’estensione delle aree urbanizzate.
Piccolo gioiello in tale senso resta il giardino, anche agrumeto, di Santa Maria di Castello.
Il giardino del chiostro di Santa Maria di Castello. Foto di Stefano Eloggi.
Nel catasto del 1798 il vico dell’Arancio era indicato nella forma dialettale di Vico del Citrone (çetrón, ovvero limone in lingua genovese).
In un atto del 1572 in cui si delibera il rifacimento della pavimentazione di Via Luccoli si legge: “dal carrogio de Cetroni a Santa Caterina”.
Nel vecchio sestiere del Molo si trova il caruggio di vico Palla sede dell’omonima celebre osteria particolarmente apprezzata per il suo gustoso stoccafisso, nonché tempio della cucina tradizionale.
Un locale storico di cui si ha già notizia a partire dal ‘600 quando fra i suoi avventori -si racconta- ci fosse anche il pittore fiammingo Anton Van Dyck, abituale cliente durante il suo soggiorno genovese fra il 1621 e il 1628.
Osteria di Vico Palla.
Tovaglia in carta per fritti con sopra la poesia sullo stoccafisso scritta nel luglio ’71 da Luigi Vacchetto, detto “O Bacillo”.
L’origine del toponimo del vico rimanda al tempo in cui qui si riunivano i giocatori di pallone prima e dopo le competizioni sportive.
Nel catasto del 1798 il caruggio è infatti registrato come Strada della Palla.
Il gioco del pallone praticato derivava dalla tipologia cinquecentesca detta “del bracciale” toscana, a sua volta evoluzione della duecentesca pallacorda.
A fine ‘800 la disciplina del bracciale si divise in due specialità: quella nuova del pallone piccolo o piemontese, diventata in seguito “pallone elastico” poi pallapugno, e quella tradizionale del pallone grosso o toscano che per tre secoli fu il gioco più praticato in tutta la Penisola.
A Genova dalla versione toscana si passò quindi a quella piemontese.
I giocatori indossavano un bracciale di legno (di solito noce) lungo 17 cm. con un’impugnatura all’interno e numerose punte trapezoidali all’esterno leggermente spuntate, per imprimere maggior velocità alla sfera.
Il pallone utilizzato era di pelle di manzo e aveva le dimensioni di circa 12 cm. di diametro e 340 gr. di peso.
Il campo di gioco misurava mediamente 80 metri in lunghezza e 16 metri in larghezza e poteva essere affiancato dal muro di ribattuta, alto intorno ai 16–18 metri.
A Genova il terreno principale si trovava nei pressi dell’Acquasola (più o meno all’altezza dell’odierna Via Santi Giacomo e Filippo), ma si ha notizia anche di combattute partite disputate nella zona di Albaro davanti alla chiesa di Santa Maria del Prato.
Acquerello di inizio ‘800. Collezione topografica del Comune di Genova.
Le squadre erano composte da tre giocatori ciascuna (battitore, spalla e terzino) e il campo limitato nella parte opposta a quella del pubblico da un muro.
Al battitore spettava il compito d’iniziare il gioco con la battuta della palla che gli veniva lanciata con perfetto tempismo dal mandarino: quest’ultimo, in passato, veniva spesso reclutato tra i migliori giocatori bocce della città; la sua abilità consisteva infatti, oltreché nella suddetta scelta di tempo, anche nella precisione con la quale doveva lanciare la palla nel supposto punto d’impatto con il bracciale.
L’incontro si svolgeva nel modo seguente: battuta la palla e commesso il primo errore, la squadra che si aggiudicava il primo scambio conquistava i primi 15 punti ai quali si aggiungevano, sempre nel caso di vittoria, altri 15 punti, poi 10 e infine 10. Il punteggio veniva, pertanto, così conteggiato: 15 – 30 – 40 – 50 ma in origine era 15 – 30 – 45 – 60. Aggiudicandosi il cinquantesimo punto la squadra vittoriosa conquistava un gioco.
Il gioco ammetteva, oltreché la risposta a volo, anche quella dopo un solo rimbalzo.
I punti si facevano:
se il pallone oltrepassava di volo il limite del campo avversario ma entro certi limiti segnalati da paletti: in tal caso si realizzava la volata;
se il pallone, sorpassata la metà del campo, non era raccolto dall’avversario;
se l’avversario mandava il pallone fuori dai lati maggiori;
se l’avversario non mandava il pallone oltre la propria metà campo.
Per due giochi consecutivi la battuta spettava alla stessa squadra. Quattro giochi formavano un trampolino. L’intero incontro era costituito da tre trampolini per un totale di dodici giochi. La vittoria spettava alla squadra che totalizzava il maggior numero di giochi nei tre trampolini.
Il Gioco della Palla nel 1914. Stadium davanti alla Stazione Brignole. Attuale Piazza Verdi. Foto Guarneri
Il Gioco della Palla nel 1914. Stadium davanti alla Stazione Brignole. Attuale Piazza Verdi. Foto Guarneri
Nel XVIII secolo tale sport era cosi popolare, da essere oggetto di scommesse, causa di frequenti disordini pubblici e inesauribile fonte di risentite lamentele per i disagi arrecati.
Fonte delle notizie storiche sul gioco del Pallone tratte dal vol. n. 6 della Storia di Genova di Aldo Padovano.
Fonte delle regole:
Antonio Scaino, Trattato del giuoco della palla, Venezia, 1555.
Edmondo De Amicis. Gli azzurri e i rossi, Torino, 1897.
In Copertina: Vico Palla. Sullo sfondo le gru del porto e le Mur della Malapaga. Foto di Giovanni Cogorno.
Quest’ultimo caruggio prende il nome dalla presenza in loco nel ‘800 di alcune ditte di Corrieri la cui attività era funzionale ai traffici commerciali della città. Ancor prima nel Medioevo il vicolo era invece noto come il caruggio dei Rumentari.
La suggestiva biforcazione: a sinistra Vico Lavagna, a destra vico dei Corrieri. Foto di Stefano Eloggi.
Qui infatti aveva sede la congregazione di coloro i quali si occupavano della raccolta della spazzatura, rumenta in genovese.
Il termine “rumenta” deriva dall’evoluzione dal latino classico “fragmenta” a quello tardo “ramenta” fino al medievale “rumenta” tuttora in uso nella nostra lingua.
I primi Rumentari furono all’inizio dell’anno Mille dei fratiquestuanti che ritiravano gratuitamente dalle botteghe ferro, segatura, lana, trucioli, stracci, cordame e persino escrementi umani, al fine poi di poterli rivendere.
Successivamente i Padri del Comune, per far fronte all’aumento delle richieste dovute all’incremento della popolazione, iniziarono a reclutare dei Rumentari laici affinché pulissero le strade e ritirassero addirittura la spazzatura a domicilio.
I carretti dei Rumentari nei primi del ‘900.
Fu così che per facilitare il lavoro degli addetti agli angoli delle strade vennero apposte delle targhe in marmo contenenti le disposizioni da osservare in materia di pulizia.
Ad esempio nel 1447 il regolamento in vigore recitava:
“Ciascuna persona dimorante in Genova e suburbi, almeno ogni settimana debba et in realtà faccia spazzare e togliere rumenta et varia dinnanzi alla sua casa fino alla metà del vicolo e faccia trasportare la rumenta e i gettiti (le cose gettate dalle finestre) in posto tale che non sia di nocumento al porto, sotto pena di soldi 5 di multa“.
I Genovesi, antesignani della moderna raccolta differenziata, erano si rispettosi delle acque portuali e del pubblico decoro, ma anche, preoccupati dalle multe, attenti alle palanche.
Per questo motivo iniziarono a nascondere la rumenta nelle case disabitate dei dintorni costringendo il Comune nel ‘500, per contrastare questa cattiva abitudine, a farle murare.
In Copertina: Vico dei Corrieri. Foto di Alessandro Dore.
Nel cuore della zona della Maddalena si sviluppa un dedalo di caruggi un tempo brulicanti di attività commerciali.
È questo il caso, ad esempio, di vico dei Droghieri sede una volta delle botteghe di spezie, droghe e coloniali.
Qui infatti non v’era mercanzia che non vi si potesse trovare: dall’aneto, al cinnamono, dal cardamomo al cumino, dalla curcuma alla liquirizia, da tutte le varietà di pepe possibili e immaginabili, allo zafferano, dal caffè al cacao e così si potrebbe continuare l’elenco “ad libitum”.
Tra i prodotti ad uso non alimentare, oltre all’incenso e alle varie essenze profumate, immancabile era l’indaco necessario per colorare i tessuti di jeans.
Un suggestivo tripudio di colori, profumi e aromi degno di un bazar orientale.
Il caruggio deve il nome all’omonima famiglia che aveva qui fino al ‘800 le sue dimore.
Qui al civico 17 visse e morì il 7 ottobre del 1777 Francesco Maria Accinelli (1700-1777), sacerdote e geografo ma soprattutto storico genovese di riferimento del suo tempo.
Oggi, purtroppo, fa parte di quella rete di vicoli dove malavita e spaccio regnano sovrani.
In Copertina: Vico Tacconi. Foto di Stefano Eloggi.
Sito nel quartiere del Molo in origine vico Malatti era uno dei numerosi vico dell’Olio presenti sparsi in città.
Cambiò denominazione in omaggio alla famiglia di artisti Malatti o Malatto, di cui il più insigne esponente fu Nicolò secentesco decoratore allievo di Domenico Parodi.
Qui ogni traversa laterale su ambo i lati costituisce spunto per una storiella, un aneddoto, una curiosità.
È il caso ad esempio di Vico Boccadoro il caruggio che raccorda Ravecca con Vico del Fico.
Misteri della toponomastica il vico fino al 1868 si chiamava allo stesso modo del parallelo vico del Dragone.
L’intitolazione Boccadoro fu adottata in relazione al nome dell’omonima famiglia, estinta ad inizio secolo scorso, a cui lo storico Federico Donaver attribuì delle dimore in zona.
Molto più prosaicamente altri sostengono che l’origine del toponimo rimandi alle arti delle signorine che esercitavano la professione più antica del mondo in una qualche casa chiusa del caruggio.
“Narciso si chinò lentamente verso di lui e fece quello che in tanti anni della loro amicizia non aveva mai fatto, sfiorò con le sue labbra i capelli e la fronte di Boccadoro. Questi si accorse di ciò che accadeva, prima con stupore, poi con commozione “Boccadoro”, gli sussurrò all’orecchio, “perdonami di non averlo saputo dire prima”.
Cit . Da “Narciso e Boccadoro” (1930). Hermann Hesse (1877-1962). Poeta Premio Nobel svizzero/tedesco.
In Copertina: Vico Boccadoro. Foto di Stefano Eloggi.
Alle spalle di via del Campo, in quello che un tempo è stato il cuore del secentesco ghetto ebraico, si trovano vico e piazzetta dei Fregoso.
La zona, abbastanza abbandonata e degradata, è ricca di testimonianze del passato: edicole votive, portalini in pietra, archetti e vecchi portoni, sono visibili un pò dappertutto.
Il toponimo del sito trae origine dal nome della nobile famiglia polceverasca.
Costoro, chiamati anche Campofregoso, provenienti da Piacenza agli albori del 200 infatti si stabilirono nella valle lungo il torrente Polcevera (“il fiume che porta le trote”) da loro indicata come “Fregosia”.
Fu un casato molto potente che si suddivise in diversi rami e che diede origine ad un plurisecolare strategico dualismo, legato alle alleanze con Francia e Spagna, con gli Adorno.
I Fregoso raggiunsero il loro apogeo infatti con Domenico Campofregoso che nel 1378 si auto proclamò Doge dopo aver destituito dalla carica il rivale Gabriele Adorno.
Non pago il pugnace Tommaso tolse ai Fieschi il feudo di Roccatagliata e assicurò l’isola di Malta ai Genovesi.
Il fratello Piero non fu da meno poiché anch’egli, nominato poi Doge nel 1393, riprese Cipro agli infedeli restituendola, in cambio della signoria su Famagosta, al legittimo re.
Anche Giacomo, Tommaso, Spinetta, Giano, Ludovico, Pietro, Battista nei decenni successivi ottennero il dogato.
Paolo a metà ‘400 e Federico un secolo dopo furono cardinali e influenti arcivescovi di Genova.
“Il Doge Ottaviano Fregoso, rappresentato da Lazzaro Tavarone a poppa di una scialuppa insieme al nocchiero Emanuele Cavallo seduto ai suoi piedi e a tre vogatori, prende possesso della Briglia”.
L’esponente più famoso fu senza dubbio Ottaviano che fu Doge dal 1513 al 1515 e poi, per conto della Francia di Francesco I, governatore fino al 1522 quando la città passò, con il famoso Sacco, in mano spagnola. Morì in carcere ad Ischia, probabilmente avvelenato.
A lui si devono i lavori di ampliamento portuali, la costruzione del campanile di San Lorenzo e l’abbattimento della fortezza della Briglia presso la Lanterna.
Fu una figura di grande rilievo nel suo tempo al punto che Baldassarre Castiglione nl suo “Il Cortigiano” lo celebra come modello illuminato per i governanti dell’epoca e persino il Guiccciardini nella sua “Storia d’Italia” ne tesse le lodi:
“principe certamente di eccellentissima virtù, e per la giustizia sua e per altre parti notabili, amato tanto in quella Città, quanto può essere amato un principe nelle terre piene di fazioni, e nella quale non era del tutto spenta nella mente degli uomini, la memoria dell’antica libertà”
Caduti in disgrazia ai Fregoso fu impedito di formare un loro proprio albergo autonomo e nel 1528 furono ascritti in quello dei De Fornaro.
Continuarono a far fruttare il loro valore in armi in qualità di capitani e ammiragli prestando servizio per i veneziani, Papa Giulio II e Francia.
Per questo un ramo dei Fregoso fu fregiato della contea di Verona, un ramo si trasferì a Parigi mentre a Genova si estinsero già nel XIX secolo.
In Copertina: Scorcio di Piazza Fregoso con sullo sfondo via del Campo. Foto di Giovanni Cogorno.