Dalla spianata, dove un tempo sorgeva il temuto Castelletto, si gode senza dubbio del panorama più affascinante della città: sullo sfondo di una distesa di mare turchino si ha l’impressione di accarezzare con lo sguardo un tappeto di tetti d’ardesia.
Campanili che, come diceva Faber, “segnano il confine tra la terra e il cielo”, torri insolenti che sfidano il firmamento e palazzi da re, in una città che di re non ne ha mai voluti.
Davanti a cotanto spettacolo Giorgio Caproni compose la sua celebre lirica nella quale immaginava di salire in paradiso a bordo dell’ascensore che lì lo aveva condotto. Eh si perché Genova nell’immediato dopoguerra, con le macerie dei bombardamenti, proprio un inferno doveva apparire. Un paesaggio desolato che mano a mano che il poeta completava la sua ascesa svelava la sua incomparabile bellezza tramutando l’inferno in paradiso.
Costruito nel 1909, completamente in stile liberty (le cabine son state rifatte nel 2010 in occasione dei suoi cento anni), copre un dislivello di 57 metri, dalla spianata di Castelletto fino a piazza del Portello. Nella seconda strofa de “L’Ascensore” (1948) Giorgio Caproni verseggiava:
“Quando mi sarò deciso
d’andarci, in paradiso
ci andrò con l’ascensore
di Castelletto, nelle ore notturne,
rubando un poco
di tempo al mio riposo”.
E un inferno certamente era sembrata la Superba a Hermann Melville che così annotava nei suoi appunti nella primavera del 1857:
“La costa verso il sud. Un promontorio. Tutta Genova e le sue fortezze, la loro esterna solitudine. La desolazione, l’aspetto selvaggio delle valli che intercorrono sembrano fare di Genova la capitale e il campo fortificato di Satana; fortificato contro gli Arcangeli. Le nuvole che si addensano sui bastioni sembrano immaginarie. Sono andato sulla parte orientale del porto e ho cominciato il giro della terza linea di fortificazioni”.
E nell’Inferno il Sommo Dante aveva collocato i genovesi: fra i traditori pose, infatti, Branca Doria ancor vivo, reo di aver fatto a pezzi il suocero Michele Zanchè per impossessarsi dei suoi possedimenti sardi.
Come racconta il Foglietta nei suoi resoconti il Poeta, giunto nella Dominante, “fu solennemente bastonato sulla pubblica via dagli amici e dai servi di Brancaleone.
Da questa offesa, non potendo il Sommo, vendicarsi con le mani, si vendicò con le parole e la penna”. Da qui la celebre invettiva scolpita nel Canto XXIII dell’Inferno, versi 151-153:
“Ahi Genovesi, uomini diversi
d’ogne costume e pien d’ogni magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?”.
Il “Ghibellin fuggiasco” prende inoltre a modello, dopo averla attraversata entrandovi da Lerici, l’aspra nostra terra, per descrivere la montagna del Purgatorio:
“Tra Lerice e Turbia la più diserta,
la più rotta ruina è una scala,
verso di quella, agevole ed aperta”.
(Canto III del Purgatorio, verso 49-51).
E se avesse ragione Faber nei versi di “Preghiera in Gennaio” dedicata all’amico Tenco, morto suicida?
“Venite in Paradiso
Là dove vado anch’io
Perché non c’è l’inferno
Nel mondo del buon Dio”…
“Dio di misericordia
Il tuo bel Paradiso
L’hai fatto soprattutto
Per chi non ha sorriso
Per quelli che han vissuto
Con la coscienza pura
L’inferno esiste solo
Per chi ne ha paura”.
Venite a Genova, venite in Paradiso!