poco regale e di un vergognoso monumento.
Nel 1815 in seguito al Congresso di Vienna finalmente i piemontesi riescono a mettere le mani sulla nostra città, di fatto comprata dagli inglesi, i quali a loro volta, l’avevano tolta a Napoleone.
I sabaudi si dimostrano presuntuosi e ostili ma, soprattutto secondo i genovesi, completamente inetti alla gestione del porto, dei commerci e delle questioni marittime.
Così che, quando nel 1849 i Savoia sono costretti all’armistizio con gli austriaci, stufi dei soprusi subiti, i Genovesi insorgono e restituiscono la libertà alla Repubblica.
Il re Vittorio Emanuele II ordina al generale Alfonso La Marmora di sedare la rivolta: mentre una nave britannica inizia a cannoneggiare la Darsena il generale, fingendo di trattare con i ribelli, scaglia loro contro circa venticinquemila fra soldati e bersaglieri.
L’assedio dura sei giorni e, nonostante la coraggiosa resistenza della Guardia Civica, forte di circa diecimila effettivi comandati dal Pareto e dal De Stefanis, Genova è riconquistata, violentate le sue donne, uccisi i suoi figli, violate le sue dimore e chiese.
Nemmeno gli infermi e gli anziani ricoverati in ospedale vengono risparmiati, in tutto si contano centinaia di morti (secondo alcuni almeno un migliaio), la maggior parte fra la popolazione inerme.
Nel testo in francese di congratulazioni inviato all’alto ufficiale per l’esito della repressione il re non esita a definire la classe dirigente mazziniana, rea di aver istigato la rivolta, “gente vile, razza infetta di canaglie” e ancora più in generale “i Genovesi son tutti Balilla, non meritano compassione, dobbiamo ucciderli tutti”.
Al generale dei Bersaglieri, per questa mirabile impresa, viene conferita da un re raggiante la Medaglia d’oro al valor militare.
Per queste ragioni fino al 1994, anno della riconciliazione con il Corpo con la tesa rotonda e le piume di gallo, ospite a Genova in occasione del proprio raduno nazionale, la Superba si è poi sempre rifiutata di arruolarvi i propri figli.
I Genovesi, “obtorto collo” furono costretti ad erigere la scultura bronzea in onore del primo re d’Italia incaricando nel 1886 l’artista milanese F. Barzaghi proprio, ironia della sorte, in Piazza Corvetto poco distante dal suo acerrimo nemico politico di sempre, Giuseppe Mazzini.
In realtà la statua del grande genovese, ritratto in un atteggiamento pensieroso, era già presente dal 1882 vicina a quella di Maria Drago, l’intrepida madre sostenitrice.
Il re, rappresentato a cavallo, è immortalato nell’atto di togliersi il cappello in segno di saluto.
Per alcuni il significato che la scena sottintende è un bonario segno di scuse, un gesto di riconciliazione.
Per altri, ed io condivido, invece i genovesi in una sorta di rivincita morale, lo hanno voluto raffigurare in un gesto di ossequio rivolto al vero padre della patria e alla sua genitrice, nonché alla Torre Grimaldina, simbolo del potere repubblicano cittadino (in effetti il sovrano si leva il cappello in quella direzione).
Bisognerebbe chiedere l’opinione delle centinaia di vittime sacrificate all’altare delle ambizioni sabaude.
Dal 2008 per volontà della comunità e del Movimento Indipendentista Ligure sul basamento è stata posta una targa che rammenta il “vergognoso sacco di Genova”.
La Liguria non ha mai partecipato ad alcun plebiscito di annessione né al Regno di Sardegna né di quello d’Italia quindi, formalmente la gloriosa e mai doma Repubblica, nonostante proprio a Genova siano nati sia il concetto d’Italia che l’unità del Paese, non si è mai sciolta.